La seguente intervista è tratta dalla seguente rivista: Kinema Junpō, n.1166, Luglio 1995, pp.36‑40.
La traduzione è stata realizzata da Yupa tra i giorni 24 e 29 Febbrajo 2004, riveduta e corretta tra il 10 e il 16 Marzo 2004.
La traduzione con ha alcun fine di lucro, ma l'unico obiettivo di divulgare in lingua italiana informazioni sull'animazione giapponese altrimenti irraggiungibili.
Dizionarî adoperati:
- AA.VV., Dizionario Shogakukan Giapponese-Italiano, 1994, Shogakukan, Tōkyō.
- Nelson, Andrew Nathaniel, The modern Reader's Japanese-English Character Dictionarysecond revised edition, 1974, Tuttle Language Library, Rutland-Tōkyō.
- Matsumura Akira (a cura di), Daijirin, 1995 (seconda edizione), Sanseidō, Tōkyō.
Tutti gli errori e le omissioni, nonché le note contenute tra parentesi quadrate, sono da addebitarsi al traduttore. In caso di citazione si prega di non alterare il contenuto.
L'ordine cognome-nome rispetta l'originale giapponese e non è ribaltato come invece avviene di consueto (quindi Miyazaki Hayao e non Hayao Miyazaki).
 
 
Sogno e disillusione della comunità
Dove stanno andando le opere dello Studio Ghibli?
Di Satō Kenji
 
Satō Kenji è scrittore e critico. Nato a Tōkyō nel 1966, si laurea nel 1989 presso il dipartimento di studî delle relazioni internazionali dell'Università della capitale. Nello stesso anno il suo Burōkun Japanīzu riceve una menzione speciale per le opere teatrali dall'Agenzia per gli Affari Culturali. Tra i suoi libri ci sono Gojira to Yamato to bokura no minshushugi (edito da Bungei Shunshū) e Chingū – Kankoku no yūjin (edito da Shinchōsha).
 
"Con l'ingresso negli anni novanta, i titoli dello Studio Ghibli, dal punto di vista del successo di pubblico, hanno ottenuto dei trionfi ancor più grandi rispetto a prima, ma dal punto di vista della completezza non sembrano eguagliare le opere del decennio precedente. Detto più chiaramente, l'impressione è che i suoi due autori (ovvero Miyazaki e Takahata), vivano con incertezza e difficoltà la questione fondamentale di cosa debba essere creato nel periodo attuale".
Questa è l'opinione che ho subito buttato nel piatto quando, nell'aprile di quest'anno, ho avuto modo di intervistare Miyazaki Hayao. Per quel che son riuscito a vedere io, difatti, dopo Omohide poroporo (1991) le opere dello Studio Ghibli, al di là del livello di qualità visiva, son diventate via via sempre più vuote nei contenuti. Non si tratta inoltre di un problema tecnico, di semplici difetti nelle sceneggiature o nella regia. Quel che non si può fare a meno di pensare è che l'origine stia in una ben più profonda confusione interiore a Miyazaki e Takahata i quali, di opera in opera, si son venuti alternandosi alla regia.
Quel che è interessante è che Miyazaki ha detto di trovarsi quasi completamente d'accordo con la mia idea e di essere, attualmente, alla difficoltosa ricerca di un varco che faccia da uscita a questa confusione. Si può inoltre pensare, come scrivo più sotto, che Mimi o sumaseba, la nuova opera che uscirà questa Estate, racchiuda anche se in forma embrionale una possibilità per uscire dalla "selva oscura" in cui in questi anni sono cadute le opere dello Studio Ghibli. Tra parentesi, la regia di questo film è attribuita a Kondō Yoshifumi; ma se consideriamo che Miyazaki si è occupato della sceneggiatura e dello storyboard, sarebbe più opportuno vederlo come una effettiva doppia regia di Miyazaki e Kondō.
Ma quali sono, quindi, queste incertezze e difficoltà visibili nelle opere dello Studio Ghibli degli anni novanta? Detto nel modo più semplice, si tratta niente di più e niente di meno che di uno spontaneo venir meno della fiducia in quella tematica presente in quasi tutte le opere successive a Taiyō no ōji – Horusu no daibōken (1968), che di Takahata e Miyazaki segnò il primo successo: l'idealizzazione delle comunità tradizionali, rappresentate dal villaggio agricolo, e la celebrazione e difesa delle dolci e intense relazioni umane di cui quelle comunità sono il simbolo. Proprio perché il sogno di una comunità ideale è diventato il nucleo delle opere di Miyazaki e Takahata, è stata la disillusione da questo sogno che delle loro opere ha inevitabilmente scosso le fondamenta.
 
Il fascino della comunità antimetropolitana
 
Come ho già detto la caratteristica delle opere di Miyazaki e Takahata è di rappresentare comunità tradizionali unificate dalla stretta unione personale ed emotiva di tutti i loro membri come dei mondi cordiali e pacifici in cui gli uomini semplici e di buona volontà vivono amichevolmente ajutandosi a vicenda; e di esaltare l'importanza di costruire e difendere queste comunità e le loro relazioni umane. Come mostrano diverse opere, a cominciare dal già citato Horusu no daibōken, e poi le serie televisive Arupusu no shōjo Haiji (1974), Mirai shōnen Konan (1978), o il libro illustrato di Miyazaki Shuna no tabi (1983) e il lungometraggio Kaze no tani no Naushika (1984), questa comunità ideale è fondamentalmente rappresentata attraverso l'immagine del villaggio agricolo. Si può dire che sia naturale, considerando come in Giappone sia proprio questo a svolgere il ruolo tipico della comunità tradizionale.
Tuttavia, la caratteristica della comunità ideale di Miyazaki e Takahata è quella di esser colma di relazioni umane dolci e intense, cordiali e pacifiche, ed è proprio per questo che non sempre e necessariamente assume la forma del villaggio agricolo. Ad esempio i quartieri popolari di Jarinko Chie (1981), il villaggio minerario e la nave pirata di Tenkū no shiro Rapyuta (1986) o l'infanzia in Tonari no Totoro (1988) e Hotaru no haka (1988), sono tutte evidenti variazioni della comunità ideale. Non solo, secondo Miyazaki persino Lupin III, definito come "l'uomo che non può ripartire" (cioè, che non ha una comunità cui far ritorno), in Rupan Sansei Kariosutoro no shiro (1979) combatte per difendere i ricordi di Clarissa. Non c'è dubbio che le scene di ricordi presenti nel film, poeticamente riassunti con toni seppiati, siano un villaggio natio interiore e concedano una momentanea sensazione di ritorno a casa anche a un individuo senza radici come Lupin III.
In tal senso, dunque, non è sempre opportuno definire "tradizionali" o "ruralistici" tutti i mondi di Miyazaki e Takahata. Si può tuttavia affermare che le comunità da loro rappresentate possiedano dei tratti essenzialmente "antimetropolitani". Questo perché la "metropolitanità" significa proprio la libertà da quelle intense relazioni umane visibili nelle comunità tradizionali. Lo dimostra nel modo più diretto Majo no takkyūbin (1989), l'unica opera dello Studio Ghibli precedente gli anni novanta ambientata una città che sembri veramente tale. Il film mostra come la strega tredicenne Kiki ottenga progressivamenta la propria autonomia lavorando nella città di Koriko. Però, riguardo ai due personaggi con cui la ragazza instaura una relazione veramente intima (la pittrice Ursula e l'anziana signora), ci viene suggerita la loro natura "antimetropolitana" attraverso i modi in cui vivono: Ursula sta in una capanna di tronchi lontana dalla città mentre la casa dell'anziana signora, a differenza di tutti gli altri edifici di Koriko, è circondata da varie piante e anche le pareti esterne sono avvolte dall'edera.
Come già ho sottolineato nel mio Gojira to Yamato to bokura no minshushugi, nelle opere di Miyazaki e Takahata la comunità "antimetropolitana" è rappresentata in modo irrealistico e notevolmente idealizzato e non è che di per sé possieda tutto questo sapore di verità e plausibilità. E nonostante questo tale sogno è diventato un'importante base sulla quale le loro opere hanno ottenuto vasto supporto; e questo per le due seguenti ragioni.
La prima consiste nel fatto che questo mondo cordiale e pacifico corrisponde allo stesso mondo definito come ideale nel Giappone del dopoguerra. Ad esempio il preambolo della Costituzione giapponese dice: "Il popolo giapponese aspira ad una pace durevole ed è deciso ad assicurare la propria sicurezza ed esistenza, essendo profondamente consapevole degli ideali sublimi che governano le reciproche relazioni umane, ed essendo fiducioso dell'equità e della giustizia dei popoli amanti della pace"; e quindi proclama: "[Il popolo giapponese] giura di erigere a proprio obiettivo questo ideale sublime con tutte le proprie forze". Non si tratta, dopotutto, del desidero di vivere amichevolmente, aiutandosi l'un l'altro e sostenendosi a vicenda con la propria buona volontà? È in questo senso che le opere di Miyazaki e Takahata hanno posseduto sin dall'inizio la caratteristica di "film nazionali".
La seconda ragione consiste nel fatto che, nonostante le comunità tradizionali siano state spazzate via dal processo di modernizzazione e urbanizzazione del dopoguerra, in loro luogo in Giappone non si sono ancora affermate quelle che sarebbe opportuno chiamare "comunità metropolitane" (si tratta di quelli che sono definiti come "gruppi umani interrelati dal punto di vista personale e psicologico in diversi ambiti della vita, la cui premessa è l'individualismo", gruppi che differiscono da quelli in cui, sul modello della gesellschaft, gli individui partecipano esclusivamente per trarne dei vantaggi). Ad esempio in Giappone non esistono quasi delle realtà umane come quelle che Woody Allen ha continuato a rappresentare sul palcoscenico di New York. Si potrebbe al contrario dire che, nel Giappone attuale, sono in molti ad aver perso una comunità sociale a cui poter ricongiungersi e ad essere estremamente isolati. Certo, per non pochi maschi adulti è grande la possibilità che sia l'azienda a svolgere il ruolo di una comunità cui ricongiungersi in maniera personale, ma un eccessivo coinvolgimento in questo tipo di comunità ha l'effetto negativo di sfasciare una comunità maggiormente fondamentale, quella della famiglia.
È anche da questo punto di vista che l'immagine della comunità ideale rappresentata da Miyazaki e Takahata ha esercitato un'attrazione, col suo fascino, presso larghi strati di persone. Difatti gli uomini non sono tanto forti da poter vivere in modo soddisfacente psicologicamente se privi della coscienza di un ricongiungimento emotivo nei confronti di una qualunque comunità. In altri termini, persino coloro i quali non provano alcun interesse per i villaggi agricoli e i quartieri popolari reali, persino coloro i quali non ritrovano una qualche plausibilità nel modo con cui Miyazaki e Takahata rappresentano le comunità "antimetropolitane", persino questi sicuramente sentono in un simile ritratto delle comunità ideali qualcosa in grado di colmare le proprie carenze psicologiche. Ciò è avvalorato, ad esempio, da quel che scrive lo scrittore Tomonari Jun'ichi a proposito del lungometraggio di Naushika: "Non posso fare a meno di indignarmi da quanto la visione del mondo di Miyazaki sia superficiale e ottimista sino all'incredibile; eppure, al contempo, mi sbalordisco per la perizia tecnica in grado di rendere plausibile questa visione del mondo incredibilmente pacifica"; e "quel mondo così spensierato mi irrita [...], eppure non so quante lacrime mi ha fatto versare" (dalla postfazione di Kenrō densetsu, Nippon Shuppansha).
Andando oltre, si può dire che la fede nella comunità ideale sia diventata uno dei punti di forza nelle opere di Miyazaki e Takahata anche ad un altro livello. Ovvero, tenendo conto che un dramma nasce dai legami che si instaurano tra gli individui, sarebbe impossibile costruirne uno dotato di profondità senza una comunità che faccia da luogo in cui gli uomini si legano l'un l'altro a livello personale. In altri termini, questo sogno della comunità ha anche assolto un ruolo di garanzia per lo spessore drammatico delle loro opere. Tra parentesi questo è lo stesso motivo per cui, nel cinema "dal vero", autori come Ōbayashi Nobuhiko o Kuramoto Satoshi (nonostante non sostengano propriamente la costruzione e la difesa di una comunità ideale) hanno continuamente insistito nel costruire le proprie opere utilizzando come sfondo i paesaggi agresti, rispettivamente, di Onomichi e Furano.
 
Perché è stato perduto il sogno?
 
Ma con l'ingresso negli anni novanta cominciano a sorgere notevoli problemi nelle opere dello Studio Ghibli. Nonostante nella superficie si continui lungo le linee precedenti cominciano ad apparire evidenti incrinature che possono far pensare unicamente al fatto che gli stessi autori nutrano dubbî nei confronti delle tematiche delle proprie opere. Le quali, di conseguenza, danno l'impressione di essere vuote e prive di contenuto.
Prendiamo come esempio Omohide poroporo. Il film racconta la storia di Okajima Taeko, impiegata ventisettenne che si risveglia al fascino di un villaggio agricolo dove si è concessa una vacanza; Takahata lo conclude con una scena sospesa tra realtà e illusione in cui si intuisce che Taeko, guidata dalla se stessa dei tempi delle elementari, si sposerà con un contadino. Ma se davvero ci fosse della convinzione riguardo al fascino del villaggio agricolo, non sarebbe stato meglio semplicemente far sposare Taeko, lasciando perdere quella rappresentazione ambigua e priva di plausibilità? Ancora, la successiva opera di Takahata, Heisei tanuki kassen ponpoko (1994) mette in scena la resistenza dei tanuki delle colline di Tama nei confronti dello sfruttamento umano. Ma anche se a prima vista Takahata sembrerebbe porsi dalla parte dei tanuki, c'è da chiedersi come mai non venga portato avanti il punto di vista secondo cui è inevitabile arrivare anche a uccidere degli uomini per fermare lo sfruttamento. Considerando che, invece, per gli uomini non ha alcuna importanza uccidere i tanuki, se questo è necessario per portare avanti lo sfruttamento, è difficile non chiedersi se Takahata, dentro di sé, non speri nella sconfitta degli animali.
Lo stesso si può dire delle opere di Miyazaki. Kurenai no buta (1992) è un film d'azione che ricorda Kariosutoro no shiro, ma il suo protagonista, Porco Rosso, a differenza di Lupin, non possiede un villaggio natìo interiore da difendere. Inoltre la comunità ideale scade al livello di una combriccola di piloti d'aereo che si divertono a prendersi in giro, un po' giocando e un po' facendosi la guerra. Infine, nell'ultimo volume di Naushika fumetto, pubblicato nel 1994, la tematica della comunità agricola in cui uomo e natura possano convivere viene improvvisamente negata, e la storia si conclude affermando che, dopotutto, nella realtà, la convivenza tra l'umanità e la Natura è impossibile. Ma per quale motivo Takahata e Miyazaki si sono disillusi rispetto alla tematica della necessità di costruire e difendere una comunità ideale? Le ragioni possono essere ricercate nelle due seguenti cause.
Riguardo alla prima ragione, come lo stesso Miyazaki ha spiegato in diverse interviste al tempo dell'uscita di Kurenai no buta, il punto è che, con la fine della Guerra Fredda tra Est e Ovest, o, meglio, nonostante le fine della Guerra Fredda, nel mondo non è stata raggiunta la pace ma, tutt'altro, si son fatti sempre più frequenti i conflitti regionali. Si consideri che, dal punto di vista della democrazia postbellica, quella in cui credono Miyazaki e Takahata, era proprio la Guerra Fredda tra Unione Sovietica e Stati Uniti il maggior ostacolo per la realizzazione di quell'ideale esaltato nel preambolo della Costituzione. In altri termini, per Miyazaki e Takahata la fine della Guerra Fredda significava che il mondo si sarebbe dovuto dirigere verso le condizioni della comunità ideale, ma il fatto che in realtà si stesse verificando una situazione opposta ha senza dubbio dato una forte scossa alla loro fiducia verso la possibilità di costruire e difendere quella comunità. Si può poi aggiungere che Miyazaki, in una sua recente intervista pubblicata sulla rivista Komikku Bokkusu, ha definito il contenuto di Heisei tanuki kassen ponpoko "un riassunto delle speranze e dei fallimenti della democrazia del dopoguerra".
Riguardo alla seconda ragione, a quanto pare il prolungamento nel Giappone odierno dell'assenza di comunità cui ricongiungersi ha portato alla ribalta delle tendenze "autistiche" e di chiusura su se stessi dove lo stretto contatto con l'altro viene sentito come fortemente sgradevole; e questo particolarmente per le giovani generazioni. Ovviamente non è che queste non abbiano proprio alcuna coscienza del ricongiungimento ma, anche come Takahata nota con acume nelle sue note registiche su Omohide poroporo, preferiscono cercare soddisfazione riunendosi in branchi dove non nascono i conflitti che si accompagnano alle relazioni umane. Citando Takahata: "(per persone di questo tipo) il termine 'relazioni umane' ormai non è più usato per quei casi in cui le persone si uniscono, rafforzano i loro legami e si consolano a vicenda; è un termine legato all'idea di 'crisi'".
Questo però equivale a dire che le giovani generazioni ormai non cercano più una "comunità antimetropolitana" in senso proprio. E questo anche se poi cercano di colmare in modo fittizio il loro desiderio di ricongiungimento assembrandosi nei cinema dove sono projettate le opere di Miyazaki e Takahata. E allora non è proprio il fatto di sostenere attraverso queste opere la necessità di costruire e difendere una comunità ideale a diventare privo di significato? È evidente come ciò si traduca nel completo sovvertimento di quello in cui i due autori credono. L'incoerente finale di Omohide poroporo mostra una cognizione delle cose legata a questa autonegazione ed è, al contempo, un caso esemplare dei rimedî disperati nati dal conflitto entro il quale Takahata cerca in qualche modo di difendere le proprie tematiche.
 
La possibilità di Mimi o sumaseba
 
È in questo modo che negli anni novanta le opere dello Studio Ghibli hanno continuamente replicato quella confusione, sostenendo inutilmente tematiche in cui gli stessi autori, ormai, non riescono più a credere. Tuttavia, come ho scritto nell'introduzione, sembra che Mimi o sumaseba, la nuova opera, nasconda in sé l'occasione per trovare una via d'uscita da questa contraddizione.
Questo perché è un'opera che, a quanto pare, finalmente si libera in modo netto dall'insistenza per le "comunità antimetropolitane" che c'è stata fino ad adesso. Ad esempio questi sono alcuni versi della canzone che accompagna il film, Country Road: "Anche se questa strada prosegue fino a dove sono nato, io non la percorrerò, non posso percorrerla, country road [...] Vorrei tornare e non posso tornare, addio, country road". Inoltre, nella spiegazione dell'opera presente nel pamphlet illustrativo leggiamo addirittura che "Shizuku, la protagonista, nata in una delle zone residenziali costruite negli ultimi decenni, sente distanti da sé le lande verdi e le montagne materne. È dopo lunghi conflitti con se stessa che la ragazza arriva a concepire che il suo villaggio natio è quel paesaggio in cui si allineano negozi e fast food, e che l'unica possibilità è viverlo, con i piedi ben piantati per terra".
Da parte sua Miyazaki, riguardo a questo film, che è una storia d'amore tra due studenti delle scuole medie, afferma: "Credo sia possibile interrogarsi su cosa significhi vivere nel benessere contemporaneo valorizzando attentamente quel che c'è di puro nel mondo ritratto da questo shōjo manga (da cui il film è tratto). La sfida del film [...] è affermare senza peli sulla lingua quanto sia meraviglioso vivere". È un dramma, questo, che non può essere costruito senza l'esistenza di una comunità che faccia da sfondo. Di conseguenza, anche se Miyazaki e Kondō non ne fossero del tutto consapevoli, Mimi o sumaseba risulta inevitabilmente un tentativo di trovare la possibilità per costruire, nel Giappone di oggi, una comunità metropolitana.
Si tratta, ovviamente, di una tematica tutt'altro che semplice, com'è mostrato dai tanti telefilm di moda che tentano di rappresentare la vita di città contemporanea e finiscono per mostrare una superficialità priva di fondamenti concreti. Tuttavia, se Mimi o sumaseba dovesse riuscire ad affermare in maniera credibile la possibilità di costruire questa comunità metropolitana nel Giappone di oggi, non solo avrebbe un profondo impatto per le giovani generazioni contemporanee, chiuse in se stesse; mostrerebbe anche un nuovo sbocco per lo studio Ghibli e poi per tutto il cinema giapponese, e questo in continuità con lo sviluppo contenutistico delle precedenti opere Ghibli. È per questo che desidero seguire con interesse se Kondō e Miyazaki riusciranno a rispondere a dovere a questa sfida grandiosa.