La seguente intervista è tratta dal seguente volume: AA.VV., Jinrō ManiaXX, Tōkyō, Kadokawa Shoten, 2000, pp. 84-87.
La traduzione è stata realizzata da Yupa tra i giorni 14 e 23 Settembre 2003, riveduta e corretta tra il 24 e il 30 Novembre 2003.
La traduzione con ha alcun fine di lucro, ma l'unico obiettivo di divulgare in lingua italiana informazioni sull'animazione giapponese altrimenti irraggiungibili.
Dizionarî adoperati:
- AA.VV., Dizionario Shogakukan Giapponese-Italiano, 1994, Shogakukan, Tōkyō.
- Nelson, Andrew Nathaniel, The modern Reader's Japanese-English Character Dictionarysecond revised edition, 1974, Tuttle Language Library, Rutland-Tōkyō.
- Matsumura Akira (a cura di), Daijirin, 1995 (seconda edizione), Sanseidō, Tōkyō.
Tutti gli errori e le omissioni, nonché le note contenute tra parentesi quadrate, sono da addebitarsi al traduttore. In caso di citazione si prega di non alterare il contenuto.
L'ordine cognome-nome rispetta l'originale giapponese e non è ribaltato come invece avviene di consueto (quindi Oshii Mamoru e non Mamoru Oshii).
 
 
L'epoca attuale, non riesco a vederla se non come una grande bugia. Credo invece che in quell'epoca ci fosse sicuramente qualcosa.
 
 
Il mondo di Jinrō affonda le sue radici nel cosiddetto ciclo dei "cani‑lupo", che si snoda in Akai megane, Keruberosu e Kenrō densetsu. Sullo sfondo ci sono gli anni trenta dell'era Shōwa, quelli che Oshii stesso ha vissuto; ma per quale motivo ne è emersa una storia alternativa del dopoguerra, diversa da quella reale? Proveremo ad approfondire le idee racchiuse in quel periodo e le radici del cico dei "cani‑lupo" che lì hanno la loro nascita.
[l'era Shōwa corrisponde al periodo di regno dell'imperatore giapponese noto in occidente come Hirohito, il cui anno I è il 1926 e che termina nel 1989, anno I dell'era Heisei; gli anni trenta dell'era Shōwa vanno dunque dal 1955 al 1965. N.d.t.]
 
Per prima cosa vorremmo farle delle domande sulla visione del mondo che fa da sfondo a Jinrō. Fino ad ora il ciclo dei "kerberos" ha preso forma nei film Akai megane e Keruberosu e nel fumetto Kenrō densetsu, ma quand'è stato che è sorta un'immagine effettiva di questo mondo? [Akai megane e Keruberosu sono due film dal vero girati da Oshii nel 1987 e nel 1991, più noti in Occidente con i rispettivi titoli di The red Spectacles e Kerberos Panzer Cops. N.d.t.]
È stato con l'inizio della pubblicazione di Kenrō densetsu [il 1988. N.d.t.]. Akai megane lo considero come completamente fantastico, anche se non so quanti lo vedano come tale ^_^. È stato con Keruberosu che mi sono chiesto come sarebbe stato rendere la cosa un po' più vicina al mondo reale, cercando come punto di contatto con la realtà l'ambientazione a Taiwan; anche perché dall'altra parte c'era il fumetto Kenrō densetsu, che avevo visualizzato chiaramente come un unico grande mondo. In quel caso avevo dovuto costruire un background per l'opera, altrimenti una serializzazione del genere non sarebbe stata possibile [il riferimento è alla serializzazione del fumetto, pubblicato in diversi episodî su diverse riviste. N.d.t.]. Quindi si può dire che quando cominciò la pubblicazione, la visione del mondo aveva già assunto una sua forma piuttosto definitiva. Alla fine, è stato a quel punto che avevo più o meno stabilito tutto, compreso il perché si usassero armi e mezzi da guerra tedeschi.
L'ambientazione è il Giappone degli anni trenta dell'era Shōwa: c'era sin dall'inizio questa intenzione?
È una cosa che ho pensato chiaramente da Keruberosu in poi. Be', se devo dire il vero, sarebbero anche potuti non essere gli anni trenta; è che quegli anni, quelli che precedono le Olimpiadi di Tōkyō, sono i più facili da rappresentare [Le Olimpiadi di Tōkyō si sono svolte nel 1964. N.d.r.]. Io sono nato nell'anno 26 dell'era Shōwa [Il 1951. N.d.r.], e quando cominciai le scuole medie era in corso il boom economico, ed era evidente che il mondo fosse cambiato. Per le generazioni che ci precedevano, poi, c'era qualcosa che era cambiato con ancor più evidenza, e cioè il dopoguerra. Nella letteratura, nel cinema, nel teatro, in ogni campo della cultura si era continuato ininterrottamente a parlare del dopoguerra, ma ora non ce ne era più traccia. Quello che potremmo chiamare il colpo di grazia al dopoguerra, cioè il fatto che non se ne parlava più, successe durante il boom economico: si pose come linea di demarcazione le Olimpiadi di Tōkyō, decidendo che quel Giappone ormai non esisteva più. Be', forse sto generalizzando troppo, ma l'impressione era questa.
Sta quindi dicendo che il suo interesse si rivolgeva al periodo che ha preceduto questo evidente cambiamento?
Dopotutto, per fare un film, che sia o meno d'animazione, si deve avere una base per rappresentare un proprio mondo: e per base intendo semplicemente quale mondo scegliere di rappresentare per far sorgere il desiderio e la volontà di creare qualcosa di proprio. E avere a che fare con elementi di cui non si sa nulla è veramente difficile. Nel mio caso, io sono un tipico abitante originario di Tōkyō, e le mie basi sono il mondo in cui ho vissuto, l'epoca in cui ho vissuto, che comprendono appunto anche il mio essere originario di Tōkyō. E anche se Tōkyō è ormai diventata un caos, è comunque difficile staccarsi dall'era Shōwa, e in particolare il periodo che precede le Olimpiadi. Il Giappone che venne in seguito è come se fosse terribilmente vuoto, come se non riuscissi a farne parte, qualunque cosa non riesco a vederla se non come una grande bugia.
E ha fatto in modo che questo si riflettesse nella sua opera.
Ci sono stati momenti in cui avevo il desiderio di fare animazione ambientata effettivamente nella città in cui vivo, nel mondo che conosco. Durante la realizzazione dell'O.V.A. Meikyū bukken, anche perché mancavano i fondi, io stesso prendevo in mano la macchina fotografica per fare le foto che sono state usate come fondali. In quel periodo ero davvero entusiasta all'idea di fare dell'animazione in quel modo. [Meikyū Bukken è un criptico O.V.A. girato da Oshii nel 1987, ancora inedito in Occidente e purtroppo mai più ristampato nemmeno in patria. N.d.t.]
Di Meikyū bukken restano particolarmente impresse le scene delle rovine.
A quel tempo, non so perché, ero attratto dalle aree non edificate, dalle umetatechi [le umetatechi sono isolette strappate al mare che costellano la baja di Tōkyō, solitamente adibite a discariche; un ambiente che compare spesso nelle opere di Oshii. N.d.t.]. Se rifletto razionalmente per trovare un motivo, direi si tratta di attaccamento a quello che ho vissuto prima delle Olimpiadi. Ci si può chiedere se si tratti semplicemente di nostalgia, ma io ho l'impressione sia una cosa un po' diversa. Ho pensato molto a lungo, tempo fa, su quale significato ci possa essere, ho anche letto diversi libri, guardato raccolte di fotografie. Be', se si tratta di ricercare un qualche significato esterno in un sentimento tanto personale, alla fine arrivo comunque a chiedermi: in quale mondo si può credere, quale mondo può fare da base per realizzare un film nel Giappone attuale? O viceversa: perché non è possibile credere in quest'epoca? L'epoca attuale, da qualunque punto di vista, non riesco a vederla se non come una grande bugia, ci sono momenti in cui la sento soltanto come una specie di copione scritto. Il fatto è che chi lavora nel cinema e nell'animazione deve indicare concretamente, attraverso le immagini, in quale mondo dunque sia possibile credere.
Nel mio caso si tratta della Tōkyō che precede le Olimpiadi. A me sembra che così stiano le cose, ho l'impressione che in quell'epoca ci fosse sicuramente qualcosa, anche se, ancora adesso, non capisco di cosa si tratti realmente. Anche perché ognuno, poi, dice la sua: ci sono degli aspetti su cui si è daccordo, e anche altri su cui discordare. Sarebbe bello poter dire: "Sì, le cose stavano così", ma non è che ci sia qualcosa di chiaramente definito.
Questa non è nostalgia.
Se la nostalgia è quella verso quel mondo vissuto durante l'infanzia, allora non è che non sia nostalgia; ma più che altro si tratta di una reazione che nasce dal rifiuto, dall'odio per l'epoca attuale. Per esempio, per quelle che sono le mie esperienze, quando ero alle scuole superiori, in quel momento il mondo era diventato quello che era il mito della nostra infanzia: il Giappone era diventato ricco, in ogni casa erano entrati televisore e frigorifero, ogni bambino aveva ottenuto una camera tutta per sé. Ma allora pensai che tutto questo non era divertente, era piuttosto inaspettatamente nojoso. I drammi familiari dei film americani che guardavamo da bambini, per la nostra generazione quello era un vero sogno. Facevamo il confronto e ci domandavamo perché il Giappone fosse così povero. Poi, finalmente, potemmo avvicinarci a quel sogno; ma una volta che fu realizzato, pensai che a conti fatti era nojoso. Mi domandavo se fosse tutto lì e, nel contempo, riflettevo su quale fosse stato il senso degli anni trenta dell'era Shōwa.
Poco dopo cominciai le scuole superiori: era giusto il 1970 (anno 44 dell'era Shōwa) e c'era l'impressione che quel momento fosse l'ultima occasione per poter cambiare il Giappone. Era un'impressione priva di alcun fondamento anche se a quel tempo pensavo ce ne fosse uno. Riflettendoci ora vedo che non c'era, ma allora si era presi da questa specie di convinzione: era un momento in cui tutto il Giappone ne era prigioniero. Forse è un'esagerazione dire tutto il Giappone, ma in particolare per quelli di una certa generazione si doveva fare qualcosa, era necessario cambiare il Giappone, se non fosse cambiato non ci si sarebbe stato alcun posto in cui poter vivere.
È facile fraintendere per chi non conosce quei tempi, ma non è che gli studenti delle scuole superiori invocassero la rivoluzione infiammati dagli ideali. Facevano quel che facevano soltanto perché non avevano altro posto dove andare, quella era l'unica società in cui potevano respirare. Ovviamente anch'io ero uno di quelli che non volevano andare a scuola, e che ancor più odiavano restare in casa. Siccome non avevo più un posto in cui stare, in breve l'unica era uscire, andare fuori. E ovviamente c'era anche chi non poteva unirsi a quelli che oggi verrebbero chiamati bōsōzoku, o entrare nella delinquenza giovanile in senso stretto [i bōsōzoku sono le bande giovanili motorizzate, particolarmente diffusesi in Giappone con l'inizio degli anni ottanta. N.d.t.]. Quindi se si andava in giro in città, le ultime scelte che rimanevano erano il cinema o la lotta politica. Be', io facevo entrambe le cose. Non voglio però dire si trattasse di una fuga, si era attratti da quelli che, più o meno, sembravano nobili ideali.
Pensandoci ora potrei dire che ci si infilava in quei gruppi per sfuggire da una realtà in cui si soffriva troppo a viverci. Era fatta così, quell'epoca. Però a volte sembra che anche adesso le cose non siano cambiate. Anzi, ho persino l'impressione siano andate via via peggiorando, e non lo penso solo del Giappone, ma di tutto il mondo; le situazioni si muovono con sempre maggior difficoltà. Ovviamente ci sono anche delle parti dinamiche, che non si può dire in che modo si evolveranno, ma il Giappone in particolare si trova in una situazione in cui il movimento è diventato impossibile. E se mai qualcosa dovesse cambiare, probabilmente cambierà in una direzione poco desiderabile e a causa di un intervento dal mondo esterno. Non ho affatto l'impressione che le cose possano finire in una buona direzione.
Quindi credo non siano pochi quelli che, compresi studenti delle scuole medie e superiori, si chiedano come mai sono nati in un periodo simile. E non penso che questo significhi che vorrebbero essere nati in un'altra epoca. Resta il fatto che il mondo non dovrebbe essere così com'è adesso. È quindi ovvio che si vada alla ricerca di realtà fittizie, costruite, e il nostro lavoro è quello di dare una risposta a questo ricerca. Adesso o trent'anni fa, penso che l'atmosfera fosse essenzialmente la stessa ma, per quanto possa sembrare strano, prima delle olimpiadi di Tōkyō non era così forte questa impressione [l'impressione di alienazione rispetto alla propria epoca. N.d.t.]. Forse si potrebbe dire che fosse così semplicemente perché eravamo bambini, ma si viveva effettivamente l'impressione che le cose sarebbero andate sempre meglio. Il mondo disegnato da Osamu Tezuka si stava avvicinando regolarmente: non è già arrivata la televisione? Abbiamo anche costruito la Tōkyō Tower. Si diceva che ormai stavano arrivando le meravigliose città del futuro, perché la tecnologia scientifica era onnipotente. Televisori, frigoriferi, onde radio: c'era l'impressione concreta che la vita si stesse muovendo verso la direzione voluta.
Poi arrivò l'idea che, in qualche punto del percorso, le cose fossero andate diversamente. Se ci si chiede cosa e dove si fosse sbagliato, fondamentalmente era la superficialità del sogno con cui si era partiti. E questo, nel mio vissuto, è diventato la base su cui riflettere sul perché ora mi trovo ad essere come sono. È per questo che penso che la Tōkyō che ha preceduto le Olimpiadi, e il successivo periodo degli anni settanta abbiano per me un qualche significato speciale. La mia tendenza è sempre quella di pensare alle cose rapportandole a quel periodo. Perché è in questo modo che riesco ad avere quella convinzione che serve per dare una forma visiva a qualcosa.
Nel ciclo dei "cani-lupo" risalta il fatto che dettagli e design varîno leggermente a seconda delle diverse opere.
È una cosa a cui ho pensato molto, ultimamente, e credo che la visione di un mondo e i dettagli con cui questo viene costruito siano due cose molto diverse. Forse mi verrà detto che dovrei smettere di criticare troppo le altrui opere... ^_^ il fatto è che penso si tratti di due cose diverse proprio perché ci sono tante opere in cui, a paragone con l'abbondanza di dettagli nei particolari, non si riesce a vedere affatto una visione del mondo; opere in cui non si capisce che tipo di mondo si desiderasse creare. Penso che la visione del mondo non sia qualcosa da capire solo guardando tutti gli episodî di una serie tv: se non si capisce con un solo episodio, allora non funziona. È questo che intendo con visione del mondo. I dettagli possono essere capiti seguendo le diverse puntate, ma la visione del mondo deve essere compresa in un solo istante: qui sta la differenza. Ho l'impressione che a volte ci si confonda, credendo che stabilire minuziosamente i dettagli significhi costruire una visione del mondo.
Ovviamente i particolari sono importanti, ma il punto non è stabilire minuziosamente tutti i dettagli. Come prima cosa si deve stabilire quello che si vuole esprimere; poi, alla fine, che si tratti dell'intuito di quell'essere umano che è il regista, o dei suoi sentimenti personali, va bene qualunque cosa. E non importa se ci siano o meno contraddizioni. Ma questa è una questione molto ambigua, e allora ci si immagina che le cose possano andar bene in qualunque maniera, l'importante è che i dettagli siano più minuziosi possibile. Be', forse si tratta di una cattiva influenza venuta da Gundam, ma comunque io sono davvero convinto che mettere assieme montagne enormi di dettagli non abbia alcun senso.
Nel caso del ciclo dei "cani‑lupo" i dettagli sono continuamente cambiati, è cambiato ogni volta il design delle armature, o i personaggi principali. Anche i nomi delle organizzazioni, sono ogni volta diversi. Eppure io credo che di aver fatto sempre la stessa cosa, ho avuto la certezza che la visione del mondo sia stata la stessa. Sentivo che era la stessa e che questo sarebbe bastato perché la storia, poi, si risolvesse in qualche modo. Rovesciando il discorso, si può dire che non ha importanza come siano i dettagli, l'importante è che la visione del mondo sia salda. I mondi in animazione sono fondamentalmente dei mondi assurdi, ma è proprio per questo che hanno bisogno di una solida visione del mondo.
 
Le opere cui ha lavorato finora, come Patlabor o Ghost in the Shell, hanno come ambientazione un futuro prossimo, mentre, al contrario, quella di Jinrō è un vicino passato.
Detto in breve, quando ci si allontana dalla realtà, il problema è solamente se rivolgersi al passato o al futuro. È una questione comoda e facile, e lo penso da quando mi sono reso conto che in entrambi casi è l'allontamento dalla realtà a diventare un possibile punto di partenza per poter cominciare a costruire un mondo. Jinrō è la prima opera in cui ho provato ad affrontare seriamente un vicino passato invece di un prossimo futuro, ma l'intenzione non è stata quella di far rinascere quell'epoca; al contrario, mi sono chiesto fino a che punto fosse fattibile raffigurare in modo realistico il fatto che anche un Giappone del genere sarebbe stato possibile.
Se ci si chiede il motivo per cui ho scelto un dopoguerra alternativo, penso che la risposta stia tutta qui. Il coraggio di Jinrō è chiedersi come mai si sia dovuta costruire una storia alternativa del dopoguerra.
Intende che si tratta di un passato che avrebbe anche potuto esistere.
Il fatto è che, dovendo dar forma al Giappone degli anni trenta dell'era Shōwa, o comunque precedente alle Olimpiadi, se non posso dire qualche bugia non mi viene voglia di farlo. E disegnare il vero dopoguerra, il vero periodo Shōwa è molto duro, e l'impressione finale non sarà quella di una grande fedeltà. Molta gente si arrabbierà per quello che dico, ma io preferisco evitare la fedeltà. Le cose possono invece diventare relativamente più semplici se, viceversa, si ha a che fare con uno Shōwa alternativo.
Forse si tratterà di un'ossessione di chi fa cinema d'animazione, ma io credo che sia possibile creare un "mondo reale" anche tramite un mondo completamente falso. È per questo che quando ho pensato a un dopoguerra alternativo rispetto a quello effettivamente accaduto mi sono sentito molto più tranquillo, ho sentito che così avrei potuto fare qualunque cosa.
Inoltre un dopoguerra che parte con l'occupazione dell'esercito tedesco, guarda caso, si accordava perfettamente con il design che già era stato fatto [si riferisce a quello per i film dal vero e per il fumetto. N.d.r.]. Le armature, da qualunque punto di vista, si potevano vedere solo come delle uniformi dell'esercito tedesco. E tra l'altro a me le armi tedesche piacciono, e mi piace in particolar modo il design delle uniformi. Poi anche Izubuchi Yutaka, che aveva disegnato le armature, era evidentemente un maniaco delle armi tedesche. Quindi, per razionalizzare quello che avevamo fatto, si poteva partire unicamente da un dopoguerra in cui l'occupazione non l'avevano fatta gli americani ma i tedeschi. E procedendo a rovescio ho allargato la visione del mondo, costruendo questo dopoguerra immaginario. Lo scenario retrostante è questo.
Però nel film non emerge chiaramente questa immagine del mondo.
È un mondo in cui per le strade corrono motocarri a tre ruote, le automobili straniere sono tutte Volkswagen o Bentz, e le parole straniere usate ogni tanto sono tedesche. È giusto però che la cosa rimanga a livello di impressione epidermica, l'obiettivo non era mostrare in tutto e per tutto l'immagine del mondo. Siccome la cosa è rimasta sempre a livello di sfondo, posso anche trattarla dettagliatamente in una versione a romanzo, che magari mi metterò a scrivere. Si tratta di un problema di realismo: in un fumetto o in animazione non è possibile mostrare fino in fondo l'immagine di un mondo. In un romanzo, invece, è utile chiarire tutto: nel nostro caso, i motivi della presenza di armi tedesche; si può pensare a una Seconda Guerra Mondiale senza l'entrata in guerra dell'America... l'America si arrocca nella dottrina Monroe e la guerra finisce senza la sua partecipazione, le potenze dell'Asse si avviano verso la vittoria mentre il Giappone, che non ha abbandonato l'allenza nippo‑britannica, finisce tra gli sconfitti.
[L'allenza nippo‑britannica fu stretta tra i due paesi nel 1902 per contenere le mire russe nell'Asia Orientale; fu sciolta nel 1921. N.d.r.]
Come scenario retrostante ho elaborato a grandi linee questa Seconda Guerra Mondiale immaginaria. Si potrebbe definirla di una storia bellica immaginaria, un genere che di recente non sembra vendere molto, ma che io apprezzo davvero tanto. Mettere in piedi delle grandi falsità partendo dalla realtà per me è davvero piacevole; probabilmente perché mi sembra di poter in qualche modo tradire la realtà, di poter dire di averla fregata!
 
Fuse, il protagonista, è un uomo silenzioso e laconico se paragonato ai loquaci personaggi che ci sono stati fin'ora nelle sue opere. Ci può dire qual è il motivo di questa decisione?
Fuse non è che non parli: non è in grado parlare. Durante il film, anche quando Kei, la ragazza, gli dice di scappare assieme a lei, lui risponde solamente: "Perdonami" [sottinteso: "non posso scappare". N.d.r.]. Per quale motivo risponda così, Fuse non è che non lo dice, non è in grado di dirlo. Questo perché, come dice Tōbe, Fuse è un lupo che indossa una pelle umana, e i lupi non raccontano mai la propria storia; anche se gli uomini raccontano storie sui lupi. È questo che intendo quando dico che lui non è che non parli ma non è in grado di parlare. Potrebbe farlo solo levandosi la pelle umana, ma in questo caso non parlerebbe, morderebbe e basta. È così che ho inteso Fuse. Il punto importante è stato come far parlare gli uomini che lo circondano, ed è per questo che ho inserito gli altri personaggi, quelli più anziani di lui, e Tōbe ne è un esempio: è uno dei lupi, ma è anche il narratore di questa storia. L'importante è che si comprenda attraverso i personaggi di contorno i motivi per cui Fuse non parla, per cui non può parlare; anche perché un personaggio unicamente laconico non è per nulla attraente.
Ci può spiegare come è nato il personaggio di Fuse?
Il fatto che in questa occasione abbia scelto questo tipo di personaggio è dovuto a una richiesta di Okiura. Diceva di voler fare qualcosa di hard boiled, e io ho scritto la sceneggiatura in stile, uno stile che anche a me non spiace. Però di solito film così diventano inevitabilmente molto cupi, e non sono accolti troppo bene. ^_^ Sicuramente un personaggio che non parla fa la sua bella figura quando la deve fare, ma non è il caso di Fuse. E questo vale anche per le scene d'azione, dove si tratta solamente di massacri: si spara e si uccide senza alcuna emozione. Anzi, in realtà forse di emozioni ce ne sono, ma noi non possiamo vederle in faccia. È quindi evidente che si tratti di un mondo fondamentalmente molto cupo. Penso però che siano proprio queste cose che si possono mettere in scena in un contesto cupo, o, meglio, la cupezza in sé ad essere il lato interessante del film, e quindi mi chiedo se ci sia effettivamente qualcosa che non va.
Solitamente i protagonisti dei miei film parlano molto. E sicuramente parlano sempre di più, e quindi forse ho voluto mirare a un'opera che fosse chiaramente diversa. Non so però, se l'avessi fatta interamente io, come sarebbe venuta, ma forse, trovandomici dentro, ce l'avrei potuta fare. Il fatto è che senza un protagonista laconico la storia non sarebbe stata in piedi. Perché un cane non parla, e qualunque cosa dica non viene capito. In questo senso la natura di un protagonista di questo tipo deriva inevitabilmente dal contenuto della storia.
 
Cosa ne pensa del film, ora che è stato completato?
È stato definito molto sobrio, ma è veramente così? Ci sono parti che mi hanno fatto rabbrividire e ho pensato che, se l'avessi fatto io, non sarei riuscito a farlo così. Non lo dico in senso assoluto, ma è risultato un film sensuale. C'era questa possibilità, dato che la favola da cui si è partiti, Cappuccetto rosso, ha una fortissima valenza sessuale, ma non pensavo si sarebbe arrivati così in là. Si uccide e si divora, sia in senso sessuale che in senso criminale e in senso di aggressività: è questo il tipo di libido che ho avvertito. E non si è trattata di una mia intenzione, anche se il fatto che lo dica ora può sembrare una scusa. È stato Okiura. La stessa Kei, la ragazza, ha sin dall'inizio degli elementi che la fanno sembrare una vittima sacrificale. E questo probabilmente si lega a Cappuccetto rosso.
Si dice che lei non abbia dato alcuna indicazione particolare a Okiura.
Sì, ho pensato che sarebbe andato bene se avesse fatto come desiderava. Però ho voluto che almeno rimanesse nei limiti dell'immagine del mondo che attraversa l'intero ciclo. In caso contrario mi sarei arrabbiato! Il lavoro di regista è uno di quelli in cui è importante comprendere le immagini del mondo che altri hanno costruito. Non si può fare tutto secondo i proprî capricci. Le cose sono comunque andate bene, e questo mi ha fatto sentire sollevato. Penso abbia fatto un lavoro molto buono. Ovviamente non è che Okiura l'abbia fatto per fare un piacere a me, l'ha fatto per se stesso e come piaceva a lui. Quindi, dal punto di vista dell'autore dell'opera originaria, mi ritengo pienamente soddisfatto, il risultato è stato buono oltre le mie aspettative. Inoltre avevo pensato fin dall'inizio che c'erano degli aspetti molti interessanti nel far girare a qualcun altro una mia sceneggiatura. Be', consideravo anche di avere a che fare con una persona in gamba.
Ci sono diverse cose straordinarie nelle tecniche e nei modi con cui ogni scena è stata espressa.
Detto in breve, non si nota alcun tentativo di scappare. Forse è qualcosa di poco chiaro per chi non fa animazione, ma Okiura ha fatto cose che lasciano di sasso. Magari sono cose che sembrano ovvie, ma prendiamo ad esempio la scena in cui i personaggi salgono la scala a chiocciola che porta al terrazzo del grande magazzino: quella, io non sarei riuscito a farla... non l'avrei fatta fare. È qualcosa che fa paura. Il ritmo sarebbe sicuramente andato a pezzi. È stupefacente invece che Okiura non sia scappato di fronte a una cosa del genere, ne sono rimasto sbalordito. Non lo dico certo per far complimenti, ma credo che questa sia un'opera che sta al vertice del cosiddetto realismo animato giapponese, credo che sia senza dubbio un punto culminante. È anche in questo senso che dico di essere pienamente soddisfatto, come autore dell'opera originaria.
Purtroppo, l'impressione che dà è molto sobria! ^_^  E questo nonostante il contenuto non lo sia affatto. Credo però che, se lo si guarda superando in qualche modo questa sobrietà, ci siano diverse cose che chiunque possa capire.