La seguente intervista è tratta dal seguente volume: AA.VV., Jinrō ManiaXX, Tōkyō, Kadokawa Shoten, 2000, pp. 70‑76.
La traduzione è stata realizzata da Yupa tra i giorni 4 e 29 Dicembre 2003, riveduta e corretta tra il 21 e il 23 Febbrajo 2004.
La traduzione con ha alcun fine di lucro, ma l'unico obiettivo di divulgare in lingua italiana informazioni sull'animazione giapponese altrimenti irraggiungibili.
Dizionarî adoperati:
- AA.VV., Dizionario Shogakukan Giapponese-Italiano, 1994, Shogakukan, Tōkyō.
- Nelson, Andrew Nathaniel, The modern Reader's Japanese-English Character Dictionarysecond revised edition, 1974, Tuttle Language Library, Rutland-Tōkyō.
- Matsumura Akira (a cura di), Daijirin, 1995 (seconda edizione), Sanseidō, Tōkyō.
Tutti gli errori e le omissioni, nonché le note contenute tra parentesi quadrate, sono da addebitarsi al traduttore. In caso di citazione si prega di non alterare il contenuto.
L'ordine cognome-nome rispetta l'originale giapponese e non è ribaltato come invece avviene di consueto (quindi Okiura Hiroyuki e non Hiroyuki Okiura).

 
OKIURA HIROYUKI ‑ INTERVISTA
 
Jinrō è il film con cui Okiura Hiroyuki debutta alla regia. Pur con soggetto e sceneggiatura dovuti a Oshii Mamori, il film, una volta completato, è senza alcun dubbio risultato un'opera di Okiura. La produzione è durata circa tre anni. Cosa ha cercato di rappresentare Okiura tramite Jinrō? Questa lunga intervista ha l'obiettivo di affrontare i segreti del film.
 
Nonostante diversi elementi immaginarî, lo scenario di Jinrō alla fine corrisponde agli anni trenta dell'era Shōwa [l'era Shōwa corrisponde al periodo di regno dell'imperatore giapponese noto in occidente come Hirohito, il cui anno I è il 1926 e che termina nel 1989, anno I dell'era Heisei; gli anni trenta dell'era Shōwa vanno dunque dal 1955 al 1965. N.d.t.]. Lei è nato negli anni quaranta [dell'era Shōwa. N.d.t.], e ha quindi avuto a che fare con un mondo a lei precedente. Che tipo di approccio ha adottato per rappresentarlo?
Per quanto riguarda la documentazione, ho fatto tutte le ricerche possibili, anche se, ovviamente, ci sono sempre cose che non si riescono a recuperare. Certe cose, pagando, avrei potuto ottenerle, ma anche in questo ci sono dei limiti. In sostanza, come prima cosa mi sono procurato quello che potevo procurarmi perché era a portata di mano, e per il resto c'era anche l'abbondante documentazione usata da Oshii‑san, che ho preso a prestito. Anche questa, comunque, era inevitabilmente frammentaria, e quindi, alla fine, l'unica è stata arrangiarmi in qualche modo.
Anche i personaggi danno l'impressione di essere persone del passato: si è trattato di un design scelto consapevolmente?
Non in senso stretto. Non è stato fatto troppo consapevolmente, non è stata una cosa fatta apposta. Anche perché, in fin dei conti, è qualcosa che è impossibile da rendere interamente tramite il disegno. Ovviamente anche se, per ipotesi, avessimo fatto delle riprese dal vero, gli attori sarebbero stati comunque persone dei nostri giorni. Alla fine il punto importante è stato capire su cosa concentrarsi, e non voler ricostruire quell'epoca in senso stretto.
Poi c'è il fatto che in animazione i vestiti, per quanto si provi a farli sembrare contemporanei, non appena vengono disegnati e colorati sui rodovetri, diventano inevitabilmente qualcosa di grossolano. Nel nostro caso abbiamo sfruttato questa cosa al contrario: l'idea di passato sarebbe risultata disegnando e colorando come si fa di solito. E poi c'è la questione delle tonalità di colore. Prima degli anni trenta [dell'era Shōwa. N.d.t.] non c'erano tecniche di colorazione come quelle attuali, e i colori dei vestiti dovevano essere più vicini a quelli primarî. Anche il tessuto immagino fosse più economico. Ma se avessimo riprodotto queste cose così come sono, il risultato sarebbe stato davvero "cartoonoso". Abbiamo quindi lasciato perdere come stessero le cose in realtà e abbiamo cercato di ricostruire quello che dovrebbe essere il ricordo, l'impressione dei colori sbiaditi, l'idea che si ha di foto nostalgiche dai toni seppiati.
Non si è trattato di ricostruire il vero anno 37 dell'era Shōwa [il 1962. N.d.t.], ma di come ricostruire quello immaginato, dando importanza, più che alla realtà, a quel che è rimasto nella memoria, come nelle immagini fotografiche. Dare un'impressione di vecchio usando le tonalità di quelle immagini. In modo che sia sufficiente guardare lo schermo per avere l'impressione che, anche se non viene spiegato, si tratta senza dubbio di una storia ambientata nel passato. Provare a realizzare ciò è stato l'obiettivo di base.
Si dice che, per raggiungerlo, si siano dovuti fare più tentativi.
Abbiamo fatto molte prove per capire come riuscire a trasmettere quest'impressione nostalgica. Abbiamo provato ogni sistema, dalle tecniche di sviluppo a quelle di ripresa, ma nessuna andava bene e alla fine abbiamo deciso di lasciar perdere, e di tornare alle basi, tentando di vincere la sfida grazie alle possibilità dei materiali di base. Credo tra l'altro che questo simboleggi lo stesso film: esistono sicuramente diverse tecniche, e ne abbiamo provate molte, ma la cosa migliore sono le possibilità date dai materiali usati. Si tratta di qualcosa che è legato al film stesso: alla fine quello che conta è se i disegni siano o meno buoni; e anche con le più fantastiche tecnologie, il disegno non funziona, se non è fatto bene. Perché un buon disegno è semplicemente la cosa più eloquente, anche senza usare alcuna tecnica.
Quando si va in un museo, si vedono dei dipinti tanto splendidi da non riuscire più a muoversi; è come si ti risucchiassero, come se possedessero una forza a cui non ci si può opporre. Se si guarda ora un film degli anni settanta [*non* dell'era Shōwa! N.d.t.], la pellicola potrà anche essere sbiadita ma le cose interessanti rimangono comunque interessanti. Oggi si vedono film belli e puliti ma nojosi e quindi penso abbia più valore spendere le stesse due ore di tempo per vedere un film vecchio e sporco ma più interessante. Credo sia un po' la stessa cosa.
 
La pellicola stessa è quasi sempre filtrata e l'impressione di sbiadimento risalta efficacemente in ogni momento. Per ottenerlo si è cercato di non lasciare apparire il senso di nettezza dei rodovetri?
La questione è complessa, anche perché ci sono state parti in cui, al contrario, ho proprio voluto che apparisse questa impressione di nettezza. In altri termini, l'intenzione è stata quella di creare delle immagini con la premessa che sono dei disegni. E il risultato doveva essere buono non per il realismo di quanto si vedeva su schermo, ma proprio in quanto erano disegni. In altri termini, l'animazione è bella perché si tratta di immagini disegnate: mentre, anche quando diventa estremamente realistica e, sfruttando il digitale, si avvicina al cinema dal vero, è sufficiente che non piaccia, che ci si chieda se sia veramente bella, perché poi passi anche la voglia di guardarla. Quindi, se si vuole poter usare al meglio il fatto che si tratta di disegni, ci si deve interrogare sul modo di disegnare. Non serve nascondere che si tratta di rodovetri, basta soltanto creare le immagini sfruttandone le caratteristiche. Quindi abbiamo disegnato appositamente le immagini in modo netto e, al contempo, le abbiamo mosse in maniera tridimensionale. Abbiamo puntato a un realismo senza la necessità di usare immagini realistiche.
 
Ci può dire qualcosa sugli obiettivi di quest'opera dal punto di vista delle tematiche?
La sceneggiatura di Oshii si basava sul rapporto tra bestia e uomo, tra uomo e cane, sulla messa in scena di questo rapporto, era strutturata in modo da projettare quest'idea sui personaggi; la cosa, però, a me non interessava molto. Avrei potuto capirla se mi fosse stata spiegata, ma le spiegazioni non le ho avute, e nemmeno le ho chieste. Certo, alla fine sono molte le persone che vedendo il film hanno avvertito quel tipo di rapporto, e quindi credo sia rimasto molto di quello che Oshii voleva dire, anche se il film l'ho realizzato io. Ma non è stato qualcosa che è avvenuto per mia intenzione. Non è potuto essere questo il tema del film perché io non mi ci sono fissato. Quello che io mi sono chiesto è stato se non fosse possibile creare una tematica projettando sulle condizioni e sull'ambiente in cui vive l'essere umano Fuse le condizioni degli esseri umani che lavorano nell'animazione, le condizioni mie e di chi mi sta intorno.
Dunque qualcosa di simile al rapporto tra l'individuo e le organizzazioni, e la società?
Sicuramente in un certo senso vien detto che non è possibile negare l'appartenenza a delle organizzazioni, ma non ho avuto nemmeno intenzione di dire che sono le organizzazioni a determinare i motivi delle azioni. Credo siano due cose diverse agire controvoglia agli ordini di un'organizzazione e scegliere di propria iniziativa di seguirli, anche se sono degli ordini.
Il punto è cosa scegliere quando ci si trova in determinate condizioni, dal punto di vista del soggetto?
Certo. Alla fine è l'individuo che fa la sua scelta. E questo c'è chi può capirlo e chi no, dipende dal proprio modo di vivere. Dopotutto non è che tutti quelli che lavorano nell'animazione ci lavorano perché gli è stato richiesto. Ognuno la pensa modo suo, c'è chi pensa che sia un ambiente terribile, c'è chi pensa che, dopotutto, altri lavori così tranquilli non ce ne sono, e così via. Quindi, a conti fatti, anche se i rischî sono molti, si continua perché si può lavorare a qualcosa che si apprezza. O perché ormai ci si trova in quella situazione. Ci sono persone che vivono questo conflitto, anche se non lo esprimono a parole. Il punto è chiedersi cosa succede quanto un giorno ci si trova improvvisamente a contatto con il mondo esterno. Magari si arriverà a domandarsi se il mondo esterno non sia poi così male: ci sono persone che camminano per la strada, impiegati, studenti, e tutti sembra che vivano felici, sì, il mondo esterno dev'essere davvero divertente. E nel frattempo noi viviamo l'inferno dell'animazione, tutto il giorno seduti al tavolo senza sapere quando mai finirà! ^_^
E intanto si pensa a quanto sembrano divertirsi quelli che alle cinque del pomeriggio hanno finito e possono andare a bere.
Sì, si pensa al fatto che c'è anche quel tipo di vita, si pensa che esistono davvero persone così. Ma anche continuando a pensarlo, si considera comunque che non basterebbe fare quel tipo di vita perché le cose poi vadano bene. Fare l'animatore è comodo e sarebbe bello farlo con dei tempi di lavoro decenti.
Ovviamente tra gli impiegati delle aziende ci sono quelli che, quando vedono Fuse, pensano: "quello sono io".
Sì, ci saranno anche persone che lo pensano.
Ci sono anche quelli che pensano che sarebbe bello poter fare un lavoro grazie alle proprie capacità.
È per questo che Fuse è quello che è, e che ciò a cui non ci si può ribellare è, detto in parole povere, un destino inevitabile. E che non è possibile negare la realtà a cui si appartiene. La questione che io mi sono posto è se esista veramente qualcosa di simile. All'estero ho sentito spesso fare paragoni col fascismo [sempre riguardo a Jinrō, ovviamente. N.d.t.]. Qui da noi il termine fascismo di solito fa pensare a qualcosa di simile alla Germania nazista, ma all'estero mi sembra ci sia un modo di intederlo per cui il fascismo include anche cose minime, ad esempio i casi in cui, sul lavoro, gli ordini di un superiore minacciano la libertà dell'individuo. Pare ci sia anche chi vede la mia opera come un confronto tra questo fascismo e la libertà. Sì, capisco che sia possibile anche questo punto di vista, ma non è che sia stata una mia intenzione. Il discorso riguardava più che altro quegli individui che riescono vivere unicamente in quel determinato modo e che, quando si incontrano con qualcosa che non ne fa parte, allora ecco che ci sono sentimenti che ribollono e traboccano nel loro interiore, e alla fine si trovano a non saper più cosa fare. È questo che io ho cercato di esprimere con coerenza.
Sta quindi dicendo che ognuno può interpretare il film secondo le proprie impressioni.
Dipende dalla situazione di chi lo guarda, e chi non lo capisce non lo capirà mai. Però, le persone che lavorano, qualunque lavoro facciano, e che si trovano in una posizione simile a quella del film, dovrebbero comunque capire qualcosa. Sono cose che dipendono dallo spettatore, queste.
 
Ha dovuto concentrare tutto in un film di 98 minuti: ci sono stati dei punti difficili, dei punti che hanno richiesto una particolare attenzione?
La modulazione delle scene, cioè la successione di scene luminose e scene scure, si tratta di una cosa che ho costruito ponendoci molta consapevolezza.
Si è trattato di alternare i due momenti?
Sì, anche se un'alternanza troppo ripetuta può comunque dare una pessima impressione. Ci deve essere un ritmo che faccia da base, e poi si può pensare a come variarlo per rendere scorrevole la visione. L'idea è questa.
La realizzazione è avvenuta sulla base di questi calcoli?
Nei momenti iniziali sì. Poi, quando comincia il lavoro effettivo, allora sembra si possa solamente correre alla massima velocità fidandosi di quel che si era intuito e pensato all'inizio. Si arriva a pensare che basta il proprio sesto senso più che i calcoli in cui si aveva tanta fiducia.
In pratica, in un certo senso già con lo storyboard il lavoro viene fatto avendo in mente come saranno le ultime rifiniture?
Certo. Quando si arriva allo storyboard a quel punto si devono pensare le singole scene tenendo conto di come diventeranno nei layout o del ritmo che assumeranno effettivamente dopo che saranno state fatti i key‑frame. Si arriva ad affrontare i problemi maggiormente pratici, tipo capire i punti che saranno difficili da realizzare, e dove e come sarà meglio evitare di fare cose impossibili. Si tratta del conflitto tra il voler fare certe immagini in un certo modo e la loro effettiva realizzabilità, si tratta di chiedersi cosa si deve fare, a livello pratico, per riuscire a concretizzarle.
Dal punto di vista concreto, le scene effettive sono state progettate tenendo conto della posizione della macchina da presa in ogni sequenza?
Il punto era evitare di mettere la macchina da presa in posti impossibili. Evitare a tutti i costi cose come, ad esempio, posizionarla all'interno di una parete per riprendere una stanza.
In modo da evitare un senso di innaturalezza?
In modo che non risultasse finto, se visto. Be', pero ci sono anche dei casi in cui abbiamo dovuto imbrogliare. Ma in pratica il massimo dell'impegno è stato messo nel disegno. Abbiamo provato a sistemare la macchina da presa da diverse angolazioni per ogni sequenza, vedendo le differenze, dove non andava bene, e cercando il modo migliore.
I lavori di macchina ricercati sono comunque pochi.
Certo. E poi ci sono molte scene fisse, ho cercato il più possibile di fare in modo di non muovere la macchina da presa.
È stato un obiettivo voluto concentrarsi sulle scene fisse?
Sì, per quanto si è potuto. Sicuramente si è cercato di costruire le scene per poterle lasciarle fisse. In questo modo il lavoro successivo [in special modo l'animazione dei personaggi. N.d.t.] non sarebbe stato affatto semplice, ma siamo riusciti a rientrare entro dei limiti apprezzabili. Una volta completato tutto, si è visto che il risultato è molto bello a vedersi. E poi, anche se si guardano i film di una volta, le riprese fisse erano molte. Intendo dire che, per un film, non è assolutamente un problema.
Qual è stata la cosa più difficile, nell'animazione?
Ovviamente, la recitazione più quotidiana. Certo, sono state difficili anche le scene d'azione, ma quelle non sono impossibili, se assegnate a un buon animatore e con esperienza. Il problema è piuttosto riuscire a trovare gente in gamba, ma quando la si trova, basta affidargli il lavoro e si è a posto. La recitazione invece comprende diversi elementi, e anche trovando qualcuno incredibilmente in gamba che ci lavori non basta. Una buona animazione e una buona recitazione sono due cose diverse ed è terribilmente difficile ottenerle entrambe.
Da una parte c'è la scelta dei collaboratori, dall'altra il modo per discutere e comunicare con loro: sotto questi aspetti com'è stata portata avanti l'animazione di questa recitazione quotidiana?
Be', qui si tratta solamente di opinioni personali, ma sono relativamente tante, comunque, le persone convinte che i registi possano lasciare tutto quanto agli animatori, quando questi sono bravi. In altre parole, si pensa che quel che serve sia soltanto lo storyboard: una volta che lo s'è finito, viene passato a chi fa le animazioni principali e poi qualcosa salterà fuori. Lo stesso per il processo per cui quel che ne risultata viene verificato e quindi passato al direttore dell'animazione. Il problema è che molto spesso gli storyboard non lasciano capire le intenzioni di chi li realizza. Forse io ho queste idee particolari perché sono un animatore, ma quando si disegna la reazione di un uomo, non è la stessa cosa se quest'uomo, in quel momento, è veramente stupito o se invece conosce la situazione e quindi fa finta di essere stupito. E allo stesso modo dovrebbe esserci una grossa differenza se sta dicendo qualcosa ma dentro di lui sta pensando il contrario o se invece sta davvero parlando seriamente. Io credo che cose di questo genere, se non le stabilisce chi fa lo storyboard, poi, a conti fatti, rimane indeterminato quali espressioni debbano esserci in determinati momenti: qui è volontariamente inespressivo ma lo sta facendo apposta, qui sorride proprio per mostrare il suo sorriso a chi gli sta davanti mentre dentro di lui non sorride, e così via. Penso sia fondamentale che queste cose le pensi chi realizza lo storyboard. Se si costruiscono le scene su queste basi, anche se poi [nelle successive fasi di lavorazione. N.d.t.] non tutto va come dovrebbe andare, basta che rimanga un po' delle intenzioni di partenza per ottenere, nel lavoro finale, una recitazione che non è quella solita dell'animazione, quella stereotipata. Ovviamente anche la recitazione tipica dell'animazione ha i suoi lati positivi, e io non intendo negarla, ma è anche possibile esprimere una recitazione diversa usando sempre dei simboli ma cambiando il modo in cui li si usa. E io credo che la differenza la possa fare chi si occupa della regia, lavorando o meno con una certa coscienza.
Mi chiedo invece se, attualmente, non si dia un'attenzione eccessiva alle tecniche di animazione che vengono dopo questi processi. Si pensa che se l'animazione è fatta male allora la scena non è espressiva, mentre, al contrario, se l'animazione è fatta bene allora si è riusciti a esprimere l'ambigua psicologia umana; ma in questo modo sparisce completamente il lavoro di chi stabilisce come impostare le scene stesse. Sì, forse io penso così perché, fondamentalmente, sono un animatore ma costruire quel che si vede su schermo è compito dell'animatore mentre stabilire cosa creare in quanto insieme dovrebbe invece essere il lavoro del regista. E si dovrebbe avere consapevolezza sia di quelle parti che compajono su schermo sia di quelle che su schermo non vengono descritte. Se una di queste due parti è assente, si ottiene un'immagine bella solo in superficie, o anche semplicemente un'immagine che è un fallimento. Se invece esiste un'intenzione non solo nella superficie, ma nascosta anche al di sotto di essa, penso che allora, anche quando l'animazione ha qualche imperfezione, qualcosa sullo schermo rimane comunque.
Forse è inevitabile che mi metta, qui, a fare teorie sulla regia, ma il fatto è che, se per esempio si volesse trasmettere una sensazione di desolazione e tristezza, allora non ha senso se tutta la scena disegnata su schermo non contiene questa sensazione; il personaggio può avere un'espressione triste quanto si vuole, ma questo non basta.
L'espressività deve attraversare ogni aspetto, dunque, dai layout sino a quel che compare su schermo. Non è questione di far soltanto abbassare le sopracciglia ai personaggi, o cose del genere.
Certamente. Molto tempo fa ho partecipato alla messa in scena del Romanzo dei tre regni, con le bambole di Kawamoto Kihachirō, e mi è piaciuto tantissimo [Il Romanzo dei tre regni è un'antica opera cinese molto nota in Cina e Giappone, di cui esiste anche una versione animata giapponese. Le bambole cui fa riferimento Okiura vengono usate per creare animazione in stop motion, quasi sempre d'ambientazione storica; non si tratta, come si potrebbe pensare, di burattini o marionette. N.d.t.]. Trattandosi di bambole tutto quel che possono fare è muovere le sopracciglia, eppure erano estremamente espressive. E questa espressività veniva resa usando l'angolazione dei volti, tramite le luci e la struttura generale della scena.
Certamente veniva fatto sembrare che le bambole interpretassero le loro emozioni, come quelle di sforzo e così via.
Sì, bastava che le bambole abbassassero un po' il capo. E credo che l'animazione, fondamentalmente, sia la stessa cosa, che le espressioni siano solamente dei simboli e il punto stia nel modo in cui i simboli vengono usati. Si può usarli per quello che sono, oppure sfruttarli in senso inverso. Anche quando a recitare sono le bambole, queste sono prive di espressioni eppure si possono costruire tantissime immagini estremamente eloquenti. Si può provare a rendere i dettagli psicologici tramite campi lunghi o trasmettere con i paesaggi ciò che una bambola priva di espressioni non può mostrare. E in certi casi mi chiedo se non sia quello che si dovrebbe fare anche con l'animazione. Poi, che io sia o meno riuscito a fare una cosa del genere, questo è un altro discorso.
È per questo quindi che la cosa migliore sarebbe che il regista comunicasse con tutto lo staff usando lo storyboard come punto di partenza?
Be', queste sono cose che dipendono dagli individui. Certamente chi sa parlare bene fa così durante gli incontri che precedono i lavori per l'animazione, anche se lo storyboard è solamente schizzato. Ma io non sono molto bravo a parlare e quindi, intanto, cerco di realizzare al meglio le immagini [dello storyboard. N.d.r.]. Anche perché se quando preparo lo storyboard lascio qualche parte indecisa perché non so come risolverla, poi il problema ritorna sicuramente. Invece se decido tutto per bene già a quel punto, quando ci sono dei problemi nelle fasi successive posso tornare allo storyboard per verificare quale fosse l'intenzione di partenza. Quindi, nel mio caso, la prima cosa da fare è preparare lo storyboard in tutti i suoi dettagli.
In questa occasione è dovuto passare dalla parte di chi disegna a quella di chi fa disegnare. Vedendo il risultato effettivo, quale pensa sia la percentuale di successo?
No, questa è una cosa che io non posso proprio capire. Per quanto riguarda il lavoro dello staff, me escluso, ne sono soddisfatto al cento per cento, ma per quanto riguarda le mie capacità, questo rimane un eterno punto interrogativo. Forse è qualcosa che solo lo spettatore può giudicare.
 
Si dice che la scelta dei doppiatori ha comportato diverse difficoltà: in pratica non c'erano persone che corrispondessero alle sue aspettative.
Sì, è andata così. Be', alla fine mi sono rivolto a Fujiki [il doppiatore di Fuse. N.d.t.], ma prima ho fatto fare diverse audizioni. Be', molti davano l'impressione che avrebbero fatto un buon lavoro, ma erano comunque troppo sicuri rispetto all'età [del protagonista di Jinrō. N.d.t.] e il problema stava proprio nella recitazione eccessivamente buona. Intendo dire che Fuse non è un tipo molto bravo a parlare. Non parla quasi mai, ma se le volte in cui lo fa usasse una buona voce, darebbe una strana impressione. Di solito le persone che non parlano molto, se quando parlano non sono goffe, non sono nemmeno plausibili. Quindi sarebbe andata meglio una voce che sembrasse giovane e bassa di tono. È così che, alla fine, sono arrivato a Fujiki.
E la cosa non ha alcun legame con la sua recitazione nel film Keruberosu? [Keruberosu è un film non d'animazione diretto da Oshii nel 1991, basato sullo stesso mondo narrativo di Jinrō. Il protagonista è interpretato da Fujiki Yoshikatsu, che poi è appunto diventato il doppiatore del protagonista di Jinrō. N.d.t.]
No, non ha alcun legame. È che quando non sapevo più come fare ho improvvisamente pensato a Fujiki. È stata anche un'occasione per rivedere Keruberosu e riconsiderarlo.
E per quanto riguarda Mutō, l'interprete di Kei?
Avevo una mia immagine di Kei, fin da quando era stata creata. La storia, ho voluto strutturarla con il racconto di Cappuccetto Rosso come asse portante, e mi son trovato a pensare a quale voce potesse andar bene. Mi immaginavo qualcuno che fosse in grado di leggere bene, ma non quel tipo di lettura corretta che si può sentire in radio. Piuttosto, mi immaginavo l'impressione data da una lettura incerta, da una ragazza che sta leggendo un libro in maniera insicura, più che da una lettura corretta. E allora ho fatto fare delle ricerche in tal senso. Be', mi sembra proprio che il risultato è stato conforme alla mia intenzione. Forse si tratta della cosa che più è andata come avevo pensato.
E per quanto riguarda i personaggi secondarî?
L'unico per cui c'è stata una mia richiesta è stato Sakaguchi, il doppiatore di Tōbe. Avevo deciso fin dall'inizio che mi sarei rivolto a lui, e anche di farne la voce narrante. Anche quando avevo lavorato a Hashire Merosu [Hashire Merosu parla della battaglia di Maratona tra greci e persiani ed è inedito in Italia; Okiura fu character designer e direttore delle animazioni. N.d.t.] Sakaguchi aveva fatto la parte del narratore e del cantore. Il ruolo, dunque, era lo stesso anche questa volta e per questo mi è potuta venire in mente soltanto la sua voce. E, be', se c'è qualcuno che si è accorto della connessione, mi farebbe soltanto piacere! ^_^
Non si tratta soltanto di Sakaguchi: sono stati usati non solo doppiatori professionisti, ma molti di loro hanno lavorato nel teatro o nel doppiaggio di film stranieri.
Certamente ci sono momenti in cui si può avvertire che non si tratta di semplici doppiatori. Dà un senso di freschezza molto buono, e lo apprezzo perché si tratta di un realismo di tipo molto singolare.