OKIURA HIROYUKI ‑ INTERVISTA
Jinrō
è il film con cui Okiura Hiroyuki debutta alla regia. Pur con soggetto e
sceneggiatura dovuti a Oshii Mamori, il film, una volta completato, è senza
alcun dubbio risultato un'opera di Okiura. La produzione è durata circa tre
anni. Cosa ha cercato di rappresentare Okiura tramite Jinrō? Questa
lunga intervista ha l'obiettivo di affrontare i segreti del film.
Nonostante diversi elementi immaginarî, lo scenario di Jinrō
alla fine corrisponde agli anni trenta dell'era Shōwa [l'era Shōwa corrisponde
al periodo di regno dell'imperatore giapponese noto in occidente come Hirohito,
il cui anno I è il 1926 e che termina nel 1989, anno I dell'era Heisei; gli
anni trenta dell'era Shōwa vanno dunque dal 1955 al 1965. N.d.t.]. Lei è
nato negli anni quaranta [dell'era Shōwa. N.d.t.], e ha quindi avuto a
che fare con un mondo a lei precedente. Che tipo di approccio ha adottato per
rappresentarlo?
Per quanto riguarda la documentazione, ho fatto tutte le
ricerche possibili, anche se, ovviamente, ci sono sempre cose che non si
riescono a recuperare. Certe cose, pagando, avrei potuto ottenerle, ma anche in
questo ci sono dei limiti. In sostanza, come prima cosa mi sono procurato
quello che potevo procurarmi perché era a portata di mano, e per il resto c'era
anche l'abbondante documentazione usata da Oshii‑san, che ho preso a prestito.
Anche questa, comunque, era inevitabilmente frammentaria, e quindi, alla fine, l'unica
è stata arrangiarmi in qualche modo.
Anche i personaggi danno l'impressione di essere persone
del passato: si è trattato di un design scelto consapevolmente?
Non in senso stretto. Non è stato fatto troppo
consapevolmente, non è stata una cosa fatta apposta. Anche perché, in fin dei
conti, è qualcosa che è impossibile da rendere interamente tramite il disegno.
Ovviamente anche se, per ipotesi, avessimo fatto delle riprese dal vero, gli
attori sarebbero stati comunque persone dei nostri giorni. Alla fine il punto
importante è stato capire su cosa concentrarsi, e non voler ricostruire quell'epoca
in senso stretto.
Poi c'è il fatto che in animazione i vestiti, per quanto si
provi a farli sembrare contemporanei, non appena vengono disegnati e colorati
sui rodovetri, diventano inevitabilmente qualcosa di grossolano. Nel nostro
caso abbiamo sfruttato questa cosa al contrario: l'idea di passato sarebbe
risultata disegnando e colorando come si fa di solito. E poi c'è la questione
delle tonalità di colore. Prima degli anni trenta [dell'era Shōwa. N.d.t.]
non c'erano tecniche di colorazione come quelle attuali, e i colori dei vestiti
dovevano essere più vicini a quelli primarî. Anche il tessuto immagino fosse
più economico. Ma se avessimo riprodotto queste cose così come sono, il
risultato sarebbe stato davvero "cartoonoso". Abbiamo quindi lasciato perdere
come stessero le cose in realtà e abbiamo cercato di ricostruire quello che
dovrebbe essere il ricordo, l'impressione dei colori sbiaditi, l'idea che si ha
di foto nostalgiche dai toni seppiati.
Non si è trattato di ricostruire il vero anno 37 dell'era
Shōwa [il 1962. N.d.t.], ma di come ricostruire quello immaginato, dando
importanza, più che alla realtà, a quel che è rimasto nella memoria, come nelle
immagini fotografiche. Dare un'impressione di vecchio usando le tonalità di
quelle immagini. In modo che sia sufficiente guardare lo schermo per avere
l'impressione che, anche se non viene spiegato, si tratta senza dubbio di una
storia ambientata nel passato. Provare a realizzare ciò è stato l'obiettivo di
base.
Si dice che, per raggiungerlo, si siano dovuti fare più tentativi.
Abbiamo fatto molte prove per capire come riuscire a trasmettere
quest'impressione nostalgica. Abbiamo provato ogni sistema, dalle tecniche di
sviluppo a quelle di ripresa, ma nessuna andava bene e alla fine abbiamo deciso
di lasciar perdere, e di tornare alle basi, tentando di vincere la sfida grazie
alle possibilità dei materiali di base. Credo tra l'altro che questo simboleggi
lo stesso film: esistono sicuramente diverse tecniche, e ne abbiamo provate
molte, ma la cosa migliore sono le possibilità date dai materiali usati. Si
tratta di qualcosa che è legato al film stesso: alla fine quello che conta è se
i disegni siano o meno buoni; e anche con le più fantastiche tecnologie, il
disegno non funziona, se non è fatto bene. Perché un buon disegno è
semplicemente la cosa più eloquente, anche senza usare alcuna tecnica.
Quando si va in un museo, si vedono dei dipinti tanto
splendidi da non riuscire più a muoversi; è come si ti risucchiassero, come se possedessero
una forza a cui non ci si può opporre. Se si guarda ora un film degli anni
settanta [*non* dell'era Shōwa! N.d.t.], la pellicola potrà anche essere
sbiadita ma le cose interessanti rimangono comunque interessanti. Oggi si
vedono film belli e puliti ma nojosi e quindi penso abbia più valore spendere
le stesse due ore di tempo per vedere un film vecchio e sporco ma più
interessante. Credo sia un po' la stessa cosa.
La pellicola stessa è quasi sempre filtrata e
l'impressione di sbiadimento risalta efficacemente in ogni momento. Per
ottenerlo si è cercato di non lasciare apparire il senso di nettezza dei
rodovetri?
La questione è complessa, anche perché ci sono state parti
in cui, al contrario, ho proprio voluto che apparisse questa impressione di
nettezza. In altri termini, l'intenzione è stata quella di creare delle
immagini con la premessa che sono dei disegni. E il risultato doveva essere
buono non per il realismo di quanto si vedeva su schermo, ma proprio in quanto
erano disegni. In altri termini, l'animazione è bella perché si tratta di
immagini disegnate: mentre, anche quando diventa estremamente realistica e,
sfruttando il digitale, si avvicina al cinema dal vero, è sufficiente che non
piaccia, che ci si chieda se sia veramente bella, perché poi passi anche la
voglia di guardarla. Quindi, se si vuole poter usare al meglio il fatto che si
tratta di disegni, ci si deve interrogare sul modo di disegnare. Non serve
nascondere che si tratta di rodovetri, basta soltanto creare le immagini sfruttandone
le caratteristiche. Quindi abbiamo disegnato appositamente le immagini in modo
netto e, al contempo, le abbiamo mosse in maniera tridimensionale. Abbiamo
puntato a un realismo senza la necessità di usare immagini realistiche.
Ci può dire qualcosa sugli obiettivi di quest'opera dal
punto di vista delle tematiche?
La sceneggiatura di Oshii si basava sul rapporto tra bestia
e uomo, tra uomo e cane, sulla messa in scena di questo rapporto, era
strutturata in modo da projettare quest'idea sui personaggi; la cosa, però, a
me non interessava molto. Avrei potuto capirla se mi fosse stata spiegata, ma
le spiegazioni non le ho avute, e nemmeno le ho chieste. Certo, alla fine sono
molte le persone che vedendo il film hanno avvertito quel tipo di rapporto, e
quindi credo sia rimasto molto di quello che Oshii voleva dire, anche se il
film l'ho realizzato io. Ma non è stato qualcosa che è avvenuto per mia
intenzione. Non è potuto essere questo il tema del film perché io non mi ci
sono fissato. Quello che io mi sono chiesto è stato se non fosse possibile
creare una tematica projettando sulle condizioni e sull'ambiente in cui vive l'essere
umano Fuse le condizioni degli esseri umani che lavorano nell'animazione, le
condizioni mie e di chi mi sta intorno.
Dunque qualcosa di simile al rapporto tra l'individuo e
le organizzazioni, e la società?
Sicuramente in un certo senso vien detto che non è
possibile negare l'appartenenza a delle organizzazioni, ma non ho avuto nemmeno
intenzione di dire che sono le organizzazioni a determinare i motivi delle
azioni. Credo siano due cose diverse agire controvoglia agli ordini di
un'organizzazione e scegliere di propria iniziativa di seguirli, anche se sono
degli ordini.
Il punto è cosa scegliere quando ci si trova in determinate
condizioni, dal punto di vista del soggetto?
Certo. Alla fine è l'individuo che fa la sua scelta. E
questo c'è chi può capirlo e chi no, dipende dal proprio modo di vivere.
Dopotutto non è che tutti quelli che lavorano nell'animazione ci lavorano perché
gli è stato richiesto. Ognuno la pensa modo suo, c'è chi pensa che sia un
ambiente terribile, c'è chi pensa che, dopotutto, altri lavori così tranquilli
non ce ne sono, e così via. Quindi, a conti fatti, anche se i rischî sono
molti, si continua perché si può lavorare a qualcosa che si apprezza. O perché
ormai ci si trova in quella situazione. Ci sono persone che vivono questo
conflitto, anche se non lo esprimono a parole. Il punto è chiedersi cosa
succede quanto un giorno ci si trova improvvisamente a contatto con il mondo
esterno. Magari si arriverà a domandarsi se il mondo esterno non sia poi così male:
ci sono persone che camminano per la strada, impiegati, studenti, e tutti
sembra che vivano felici, sì, il mondo esterno dev'essere davvero divertente. E
nel frattempo noi viviamo l'inferno dell'animazione, tutto il giorno seduti al
tavolo senza sapere quando mai finirà! ^_^
E intanto si pensa a quanto sembrano divertirsi quelli
che alle cinque del pomeriggio hanno finito e possono andare a bere.
Sì, si pensa al fatto che c'è anche quel tipo di vita, si
pensa che esistono davvero persone così. Ma anche continuando a pensarlo, si considera
comunque che non basterebbe fare quel tipo di vita perché le cose poi vadano
bene. Fare l'animatore è comodo e sarebbe bello farlo con dei tempi di lavoro
decenti.
Ovviamente tra gli impiegati delle aziende ci sono
quelli che, quando vedono Fuse, pensano: "quello sono io".
Sì, ci saranno anche persone che lo pensano.
Ci sono anche quelli che pensano che sarebbe bello poter
fare un lavoro grazie alle proprie capacità.
È per questo che Fuse è quello che è, e che ciò a cui non
ci si può ribellare è, detto in parole povere, un destino inevitabile. E che non
è possibile negare la realtà a cui si appartiene. La questione che io mi sono
posto è se esista veramente qualcosa di simile. All'estero ho sentito spesso
fare paragoni col fascismo [sempre riguardo a Jinrō, ovviamente.
N.d.t.]. Qui da noi il termine fascismo di solito fa pensare a qualcosa di simile
alla Germania nazista, ma all'estero mi sembra ci sia un modo di intederlo per
cui il fascismo include anche cose minime, ad esempio i casi in cui, sul
lavoro, gli ordini di un superiore minacciano la libertà dell'individuo. Pare
ci sia anche chi vede la mia opera come un confronto tra questo fascismo e la
libertà. Sì, capisco che sia possibile anche questo punto di vista, ma non è
che sia stata una mia intenzione. Il discorso riguardava più che altro quegli
individui che riescono vivere unicamente in quel determinato modo e che, quando
si incontrano con qualcosa che non ne fa parte, allora ecco che ci sono
sentimenti che ribollono e traboccano nel loro interiore, e alla fine si
trovano a non saper più cosa fare. È questo che io ho cercato di esprimere con
coerenza.
Sta quindi dicendo che ognuno può interpretare il film
secondo le proprie impressioni.
Dipende dalla situazione di chi lo guarda, e chi non lo capisce
non lo capirà mai. Però, le persone che lavorano, qualunque lavoro facciano, e
che si trovano in una posizione simile a quella del film, dovrebbero comunque
capire qualcosa. Sono cose che dipendono dallo spettatore, queste.
Ha dovuto concentrare tutto in un film di 98 minuti: ci
sono stati dei punti difficili, dei punti che hanno richiesto una particolare
attenzione?
La modulazione delle scene, cioè la successione di scene
luminose e scene scure, si tratta di una cosa che ho costruito ponendoci molta
consapevolezza.
Si è trattato di alternare i due momenti?
Sì, anche se un'alternanza troppo ripetuta può comunque
dare una pessima impressione. Ci deve essere un ritmo che faccia da base, e poi
si può pensare a come variarlo per rendere scorrevole la visione. L'idea è
questa.
La realizzazione è avvenuta sulla base di questi
calcoli?
Nei momenti iniziali sì. Poi, quando comincia il lavoro
effettivo, allora sembra si possa solamente correre alla massima velocità fidandosi
di quel che si era intuito e pensato all'inizio. Si arriva a pensare che basta il
proprio sesto senso più che i calcoli in cui si aveva tanta fiducia.
In pratica, in un certo senso già con lo storyboard
il lavoro viene fatto avendo in mente come saranno le ultime rifiniture?
Certo. Quando si arriva allo storyboard a quel punto
si devono pensare le singole scene tenendo conto di come diventeranno nei layout
o del ritmo che assumeranno effettivamente dopo che saranno state fatti i key‑frame.
Si arriva ad affrontare i problemi maggiormente pratici, tipo capire i punti
che saranno difficili da realizzare, e dove e come sarà meglio evitare di fare cose
impossibili. Si tratta del conflitto tra il voler fare certe immagini in un
certo modo e la loro effettiva realizzabilità, si tratta di chiedersi cosa si
deve fare, a livello pratico, per riuscire a concretizzarle.
Dal punto di vista concreto, le scene effettive sono
state progettate tenendo conto della posizione della macchina da presa in ogni
sequenza?
Il punto era evitare di mettere la macchina da presa in
posti impossibili. Evitare a tutti i costi cose come, ad esempio, posizionarla
all'interno di una parete per riprendere una stanza.
In modo da evitare un senso di innaturalezza?
In modo che non risultasse finto, se visto. Be', pero ci
sono anche dei casi in cui abbiamo dovuto imbrogliare. Ma in pratica il massimo
dell'impegno è stato messo nel disegno. Abbiamo provato a sistemare la macchina
da presa da diverse angolazioni per ogni sequenza, vedendo le differenze, dove
non andava bene, e cercando il modo migliore.
I lavori di macchina ricercati sono comunque pochi.
Certo. E poi ci sono molte scene fisse, ho cercato il più
possibile di fare in modo di non muovere la macchina da presa.
È stato un obiettivo voluto concentrarsi sulle scene
fisse?
Sì, per quanto si è potuto. Sicuramente si è cercato di
costruire le scene per poterle lasciarle fisse. In questo modo il lavoro
successivo [in special modo l'animazione dei personaggi. N.d.t.] non
sarebbe stato affatto semplice, ma siamo riusciti a rientrare entro dei limiti
apprezzabili. Una volta completato tutto, si è visto che il risultato è molto
bello a vedersi. E poi, anche se si guardano i film di una volta, le riprese
fisse erano molte. Intendo dire che, per un film, non è assolutamente un
problema.
Qual è stata la cosa più difficile, nell'animazione?
Ovviamente, la recitazione più quotidiana. Certo, sono
state difficili anche le scene d'azione, ma quelle non sono impossibili, se
assegnate a un buon animatore e con esperienza. Il problema è piuttosto riuscire
a trovare gente in gamba, ma quando la si trova, basta affidargli il lavoro e
si è a posto. La recitazione invece comprende diversi elementi, e anche trovando
qualcuno incredibilmente in gamba che ci lavori non basta. Una buona animazione
e una buona recitazione sono due cose diverse ed è terribilmente difficile ottenerle
entrambe.
Da una parte c'è la scelta dei collaboratori, dall'altra
il modo per discutere e comunicare con loro: sotto questi aspetti com'è stata
portata avanti l'animazione di questa recitazione quotidiana?
Be', qui si tratta solamente di opinioni personali, ma sono
relativamente tante, comunque, le persone convinte che i registi possano
lasciare tutto quanto agli animatori, quando questi sono bravi. In altre
parole, si pensa che quel che serve sia soltanto lo storyboard: una
volta che lo s'è finito, viene passato a chi fa le animazioni principali e poi qualcosa
salterà fuori. Lo stesso per il processo per cui quel che ne risultata viene
verificato e quindi passato al direttore dell'animazione. Il problema è che
molto spesso gli storyboard non lasciano capire le intenzioni di chi li
realizza. Forse io ho queste idee particolari perché sono un animatore, ma quando
si disegna la reazione di un uomo, non è la stessa cosa se quest'uomo, in quel
momento, è veramente stupito o se invece conosce la situazione e quindi fa
finta di essere stupito. E allo stesso modo dovrebbe esserci una grossa
differenza se sta dicendo qualcosa ma dentro di lui sta pensando il contrario o
se invece sta davvero parlando seriamente. Io credo che cose di questo genere,
se non le stabilisce chi fa lo storyboard, poi, a conti fatti, rimane indeterminato
quali espressioni debbano esserci in determinati momenti: qui è volontariamente
inespressivo ma lo sta facendo apposta, qui sorride proprio per mostrare il suo
sorriso a chi gli sta davanti mentre dentro di lui non sorride, e così via.
Penso sia fondamentale che queste cose le pensi chi realizza lo storyboard.
Se si costruiscono le scene su queste basi, anche se poi [nelle successive
fasi di lavorazione. N.d.t.] non tutto va come dovrebbe andare, basta che
rimanga un po' delle intenzioni di partenza per ottenere, nel lavoro finale,
una recitazione che non è quella solita dell'animazione, quella stereotipata.
Ovviamente anche la recitazione tipica dell'animazione ha i suoi lati positivi,
e io non intendo negarla, ma è anche possibile esprimere una recitazione
diversa usando sempre dei simboli ma cambiando il modo in cui li si usa. E io
credo che la differenza la possa fare chi si occupa della regia, lavorando o
meno con una certa coscienza.
Mi chiedo invece se, attualmente, non si dia un'attenzione
eccessiva alle tecniche di animazione che vengono dopo questi processi. Si
pensa che se l'animazione è fatta male allora la scena non è espressiva,
mentre, al contrario, se l'animazione è fatta bene allora si è riusciti a
esprimere l'ambigua psicologia umana; ma in questo modo sparisce completamente
il lavoro di chi stabilisce come impostare le scene stesse. Sì, forse io penso
così perché, fondamentalmente, sono un animatore ma costruire quel che si vede
su schermo è compito dell'animatore mentre stabilire cosa creare in quanto
insieme dovrebbe invece essere il lavoro del regista. E si dovrebbe avere
consapevolezza sia di quelle parti che compajono su schermo sia di quelle che
su schermo non vengono descritte. Se una di queste due parti è assente, si
ottiene un'immagine bella solo in superficie, o anche semplicemente un'immagine
che è un fallimento. Se invece esiste un'intenzione non solo nella superficie,
ma nascosta anche al di sotto di essa, penso che allora, anche quando
l'animazione ha qualche imperfezione, qualcosa sullo schermo rimane comunque.
Forse è inevitabile che mi metta, qui, a fare teorie sulla
regia, ma il fatto è che, se per esempio si volesse trasmettere una sensazione
di desolazione e tristezza, allora non ha senso se tutta la scena disegnata su
schermo non contiene questa sensazione; il personaggio può avere un'espressione
triste quanto si vuole, ma questo non basta.
L'espressività deve attraversare ogni aspetto, dunque,
dai layout sino a quel che compare su schermo. Non è questione di far
soltanto abbassare le sopracciglia ai personaggi, o cose del genere.
Certamente. Molto tempo fa ho partecipato alla messa in
scena del Romanzo dei tre regni, con le bambole di Kawamoto Kihachirō, e
mi è piaciuto tantissimo [Il Romanzo dei tre regni è un'antica opera
cinese molto nota in Cina e Giappone, di cui esiste anche una versione animata
giapponese. Le bambole cui fa riferimento Okiura vengono usate per creare
animazione in stop motion, quasi sempre d'ambientazione storica; non si
tratta, come si potrebbe pensare, di burattini o marionette. N.d.t.]. Trattandosi
di bambole tutto quel che possono fare è muovere le sopracciglia, eppure erano
estremamente espressive. E questa espressività veniva resa usando l'angolazione
dei volti, tramite le luci e la struttura generale della scena.
Certamente veniva fatto sembrare che le bambole
interpretassero le loro emozioni, come quelle di sforzo e così via.
Sì, bastava che le bambole abbassassero un po' il capo. E
credo che l'animazione, fondamentalmente, sia la stessa cosa, che le
espressioni siano solamente dei simboli e il punto stia nel modo in cui i simboli
vengono usati. Si può usarli per quello che sono, oppure sfruttarli in senso
inverso. Anche quando a recitare sono le bambole, queste sono prive di
espressioni eppure si possono costruire tantissime immagini estremamente
eloquenti. Si può provare a rendere i dettagli psicologici tramite campi lunghi
o trasmettere con i paesaggi ciò che una bambola priva di espressioni non può
mostrare. E in certi casi mi chiedo se non sia quello che si dovrebbe fare
anche con l'animazione. Poi, che io sia o meno riuscito a fare una cosa del
genere, questo è un altro discorso.
È per questo quindi che la cosa migliore sarebbe che il
regista comunicasse con tutto lo staff usando lo storyboard come
punto di partenza?
Be', queste sono cose che dipendono dagli individui.
Certamente chi sa parlare bene fa così durante gli incontri che precedono i
lavori per l'animazione, anche se lo storyboard è solamente schizzato.
Ma io non sono molto bravo a parlare e quindi, intanto, cerco di realizzare al
meglio le immagini [dello storyboard. N.d.r.]. Anche perché se
quando preparo lo storyboard lascio qualche parte indecisa perché non so
come risolverla, poi il problema ritorna sicuramente. Invece se decido tutto
per bene già a quel punto, quando ci sono dei problemi nelle fasi successive
posso tornare allo storyboard per verificare quale fosse l'intenzione di
partenza. Quindi, nel mio caso, la prima cosa da fare è preparare lo storyboard
in tutti i suoi dettagli.
In questa occasione è dovuto passare dalla parte di chi
disegna a quella di chi fa disegnare. Vedendo il risultato effettivo, quale
pensa sia la percentuale di successo?
No, questa è una cosa che io non posso proprio capire. Per
quanto riguarda il lavoro dello staff, me escluso, ne sono soddisfatto
al cento per cento, ma per quanto riguarda le mie capacità, questo rimane un
eterno punto interrogativo. Forse è qualcosa che solo lo spettatore può
giudicare.
Si dice che la scelta dei doppiatori ha comportato
diverse difficoltà: in pratica non c'erano persone che corrispondessero alle
sue aspettative.
Sì, è andata così. Be', alla fine mi sono rivolto a Fujiki
[il doppiatore di Fuse. N.d.t.], ma prima ho fatto fare diverse
audizioni. Be', molti davano l'impressione che avrebbero fatto un buon lavoro,
ma erano comunque troppo sicuri rispetto all'età [del protagonista di Jinrō.
N.d.t.] e il problema stava proprio nella recitazione eccessivamente buona.
Intendo dire che Fuse non è un tipo molto bravo a parlare. Non parla quasi mai,
ma se le volte in cui lo fa usasse una buona voce, darebbe una strana impressione.
Di solito le persone che non parlano molto, se quando parlano non sono goffe,
non sono nemmeno plausibili. Quindi sarebbe andata meglio una voce che
sembrasse giovane e bassa di tono. È così che, alla fine, sono arrivato a
Fujiki.
E la cosa non ha alcun legame con la sua recitazione nel
film Keruberosu? [Keruberosu è un film non d'animazione diretto da
Oshii nel 1991, basato sullo stesso mondo narrativo di Jinrō. Il
protagonista è interpretato da Fujiki Yoshikatsu, che poi è appunto diventato
il doppiatore del protagonista di Jinrō. N.d.t.]
No, non ha alcun legame. È che quando non sapevo più come
fare ho improvvisamente pensato a Fujiki. È stata anche un'occasione per rivedere
Keruberosu e riconsiderarlo.
E per quanto riguarda Mutō, l'interprete di Kei?
Avevo una mia immagine di Kei, fin da quando era stata
creata. La storia, ho voluto strutturarla con il racconto di Cappuccetto Rosso come
asse portante, e mi son trovato a pensare a quale voce potesse andar bene. Mi
immaginavo qualcuno che fosse in grado di leggere bene, ma non quel tipo di
lettura corretta che si può sentire in radio. Piuttosto, mi immaginavo
l'impressione data da una lettura incerta, da una ragazza che sta leggendo un
libro in maniera insicura, più che da una lettura corretta. E allora ho fatto
fare delle ricerche in tal senso. Be', mi sembra proprio che il risultato è
stato conforme alla mia intenzione. Forse si tratta della cosa che più è andata
come avevo pensato.
E per quanto riguarda i personaggi secondarî?
L'unico per cui c'è stata una mia richiesta è stato Sakaguchi,
il doppiatore di Tōbe. Avevo deciso fin dall'inizio che mi sarei rivolto a lui,
e anche di farne la voce narrante. Anche quando avevo lavorato a Hashire Merosu
[Hashire Merosu parla della battaglia di Maratona tra greci e persiani ed è
inedito in Italia; Okiura fu character designer e direttore delle
animazioni. N.d.t.] Sakaguchi aveva fatto la parte del narratore e del cantore.
Il ruolo, dunque, era lo stesso anche questa volta e per questo mi è potuta venire
in mente soltanto la sua voce. E, be', se c'è qualcuno che si è accorto della
connessione, mi farebbe soltanto piacere! ^_^
Non si tratta soltanto di Sakaguchi: sono stati usati
non solo doppiatori professionisti, ma molti di loro hanno lavorato nel teatro
o nel doppiaggio di film stranieri.
Certamente ci sono momenti in cui si può avvertire che non
si tratta di semplici doppiatori. Dà un senso di freschezza molto buono, e lo
apprezzo perché si tratta di un realismo di tipo molto singolare.