La
seguente intervista è tratta da Kinema Junpō, n.1166, Luglio 1995, pp.54-61,
dopo essere comparsa su un numero speciale della rivista Anipeke,
pubblicata dal Circolo dell'Animazione Tōkai (Tōkai animēshon sākuru).
Traduzione
dal giapponese realizzata da Yupa dal 14 al 27 Maggio 2004, rivista e corretta
nei giorni dal 28 Maggio al 6 Giugno 2004, senza alcun fine di lucro, con
l'unico scopo di divulgare informazioni in lingua italiana sull'animazione
giapponese, altrimenti irraggiungibili.
È
stata usata, come termine di confronto, una traduzione dello stesso testo ad
opera di Toyama Ryōko (depositata presso il sito www.nausicaa.net).
L'ordine
cognome-nome rispetta l'originale giapponese e non è ribaltato come invece
avviene di consueto (quindi Miyazaki Hayao e non Hayao Miyazaki).
Tutti
gli errori e le omissioni, nonché le note contenute tra parentesi quadrate,
sono da addebitarsi al traduttore.
In
caso di citazione si prega di non alterare il contenuto. In caso di
distribuzione e/o utilizzo si prega di avvisare anticipatamente il traduttore.
Trascrizione
della conferenza di Miyazaki Hayao
Largo all'animazione!
(Festival
del cinema di Nagoya del 1988)
La conferenza è stata tenuta il 22 maggio del 1998,
nella città di Nagoya, in occasione della projezione di Tenku no shiro Rapyuta,
Panda kopanda e Panda kopanda – Amefuri sākasu no maki. Si tratta
di una conferenza di gran valore, che chiarisce la grande influenza nelle opere
di Miyazaki dei ricordi e delle esperienze di guerre di cui qui parla, e delle
basi creative della sua opera.
Panda kopanda è un'opera di diversi anni fa, quando
l'animazione televisiva giapponese in un certo senso stava proprio toccando il
fondo. Se ne consideriamo la storia, l'animazione televisiva ci è arrivata più
volte, a toccare il fondo. Be', lo sta facendo anche adesso. (risate generali)
[Panda kopanda è un mediometraggio del 1972; progetto e sceneggiatura
sono di Miyazaki, la regia è di Takahata. N.d.t.]
Mi sembrava che Panda kopanda, se confrontato con
l'animazione televisiva del tempo, l'avessimo fatto con uno sforzo notevole in
termini di tempo e denaro, e invece risparmiammo non poco nella quantità delle
animazioni. E riguardarlo ora fa venire un po' male, fa pensare che sarebbe
stato davvero meglio averlo potuto animare un po' di più!
Comunque sia, lo realizzai assieme con Paku-san (Takahata
Isao) e andammo insieme al cinema a vederlo. Be', noi pensavamo fosse un film
che non avrebbe interessato nessuno, ma i pochi bambini presenti lo apprezzarono
davvero tanto. Avevo portato anche i miei figli, che l'hanno guardato tutti
concentrati. È un'idea diffusa che i bambini, se qualcosa non gli interessa,
cominciano ad andarsene per conto loro da tutte le parti. Panda kopanda
ci diede una certa fiducia in noi stessi, la fiducia di poter fare qualcosa che
non fosse così, e divenne quindi l'occasione che poi ci portò a fare Arupusu
no shōjo Haiji [Heidi, la bambina delle alpi. Serie televisiva del
1974, prodotta dalla Nippon Animation. N.d.t.]. È per questo che, per noi, è
un'opera che ha avuto un significato davvero speciale. Fino ad allora avevamo
voluto fare opere per noi stessi, mentre questa fu la prima volta in cui, ora
che eravamo diventati genitori, lavorammo pensando di fare qualcosa per i
bambini.
Discutevamo anche di come avremmo potuto portare avanti la
storia nel caso si fosse arrivati a farne tre o quattro episodî, ma poi con il
secondo tutto finì [Il secondo episodio è Panda kopanda – Amefuri sākasu no
maki (Il panda e il suo piccolo – Il capitolo del circo della pioggia),
del 1973; i ruoli di Miyazaki e Takahata sono gli stessi del primo. N.d.t.]. E
visto che dopo non se ne fece più nulla, quando è arrivato il momento di Tonari
no Totoro ho voluto fare un film come si deve con quelle idee, anche se non
si è trattato proprio di una ripresa identica. [Tonari no Totoro è un
lungometraggio di Miyazaki del 1988, a tutt'oggi ancora inedito in italiano.
N.d.t.]
Fiori
di carta in dono dal majale
Anche se può sembrare stupido, una volta avevo progettato
un film con un majale che pilota un carro armato. (risate generali)
C'era un majale un po' pazzo che aveva costruito un carro
armato enorme, grande come questa sala. Questo majale era un militare ma c'era
stato qualcosa di poco piacevole, tanto che aveva affermato di non esserlo più.
Inoltre, anche se non era ancora sposato, aveva un sacco di nipoti nell'esercito,
una trentina in tutto. Zio e nipoti salgono quindi su questo carro armato e,
anche se non si capisce per quale motivo si ribellino, fanno un giuramento
assurdo, di percorrere tutto il paese senza curvare mai (risate generali), e
avanzano così verso la capitale imperiale. Ecco, sarebbe stato un film
d'animazione di questo tipo.
A un certo punto passano in un villaggio sul percorso e lì
si trova una graziosa ragazza che rapiscono come "bottino di guerra n.1".
Dentro il carro armato ci sono anche delle stanze, stanze che possono essere comodamente
elevate, in modo da poter osservare dall'alto quel che succede intorno, per poi
tornare altrettanto comodamente alle dimensioni originarie, ed è in una di
queste che la ragazza viene rinchiusa. Quindi il majale la corteggia, le porta
dei fiori di carta o qualcosa del genere. Ma lei ha già un fidanzato, che li
insegue con una moto e anche se non c'è confronto tra questa e il carro armato,
alla fine lui e la ragazza riescono a distruggerlo. Almeno, questa era la mia
idea iniziale. Perché poi, via via che ci lavoravo, un po' alla volta il
ragazzo spariva, e alla fine i sentimenti del majale ottenevano il giusto
riconoscimento... e vissero per sempre felici e contenti! (risate generali).
All'inizio la ragazza era una ragazza qualunque, che
lavorava nel ristorante di una stazione. Poi, un po' alla volta, è cambiata
molto: avrei voluta farne una ragazza molto carina, che canta in un bar, come
Marilyn Monroe in La magnifica preda, soltanto un po' più giovane e pura.
Può sembrare incredibile, ma il progetto fu accettato,
anche se come OVA. Però io non potevo farlo, anche perché era il momento in cui
stavo cercando di realizzare Tenkū no shiro Rapyuta. ^_^
E allora dissi a un giovane che facesse lui il regista, e
lui accettò. Ma a mano a mano che portammo avanti il discorso le nostre
opinioni finirono per divergere chiaramente.
Il protagonista, dopo aver rapito la ragazza come "bottino
di guerra n.1", tutto quel che faceva era offrirle dei fiori di carta ("Io ti
amo!") e, dopo che lei rifiutava cortesemente ("No, grazie, il mio cuore è già
impegnato!"), lui rispondeva: "Be', non importa. Saprò attendere per sempre che
tu cambi i tuoi sentimenti". Ma questo giovane regista non credeva potesse
esistere un uomo del genere, e diceva che, invece, sicuramente l'avrebbe fatta
sua.
Ma io gli rispondevo con decisione: "Ma se lo facesse,
allora la sua vita non sarebbe per nulla interessante! Potremmo anche farla,
una storia in cui la possiede subito dopo averla rapita, ma non avrebbe
senso!", e ancora: "Io la vedo così: certamente la rapisce, ma penso non ci sia
niente di male in un majale che fa molta attenzione al lato sentimentale della
questione. Penso che faccia venir voglia di vederlo, e di pagare per vederlo".
Ma alla fine il regista lasciò perdere tutto quanto: "Io, un cattivo del genere
non lo capisco".
Lasciò perdere e così il progetto fallì. ^_^ E fino a oggi
non è più tornato a galla.
Finora ho fatto diversi film, ma spesso mi è stato detto:
"Nei tuoi film, di veri cattivi non ce ne sono". Perché prima o poi diventano
buoni, dimostrano una tale passione in quel che fanno da diventare buoni. Ad
esempio, nelle serie televisive, dopo tre episodî comincio a pensare che il
tale cattivo sicuramente diventerà un buono, e infatti finisce proprio così.
Il punto è che è così che io voglio che sia. A dire il vero
non si sa se quel majale che ha rapito la ragazza cercherà di convincerla del
suo amore in modo stoico o platonico, ma se su cento milioni di majali ce n'è anche
uno solo così, a me basta quello, e che tutti gli altri siano pure individui
violenti, che la fanno loro. La natura di un majale è questa e il punto su cui
le opinioni divergono è se si vuole fare un film su questa vera natura, e
allora la cosa migliore è usare un majale che possiede la ragazza; oppure, dato
che forse su cento milioni di majali ne esiste uno diverso, decidere di fare un
film su quest'ultimo.
Io non ho alcuna intenzione di mettere in scena un cattivo
vero e proprio, uno di quelli che non considerano più gli altri come persone,
che hanno perso la loro fantasia nei confronti degli altri, un cattivo che,
dopo aver posseduto cento ragazze, non si fa problemi con la centounesima o con
la centodecima. Il fatto è che non riesco a voler fare un film per disegnare personaggi
del genere. Ed è per questo che molti pensano che i miei protagonisti siano
troppo dei bravi ragazzi, che siano davvero troppo i primi della classe: "Gente
così non ne esiste!". Sono soprattutto le ragazze a dirmelo: "Ragazze così non
ne esistono!" (risate generali) Stranamente gli uomini non mi dicono: "Maschi
così non ne esistono!". Forse pensano che potrebbero anche essercene, mentre le
donne affermano in tutta sicurezza che le ragazze sono diverse. È una cosa,
questa, che non riesco a capire.
Comunque il concetto è che io manchi di approfondimento
psicologico, che chiuda gli occhi davanti al male e alla stupidità che ci può
essere in una persona, che ne metta in luce soltanto i lati positivi e quel che
c'è di buono. Ad esempio, anche Tonari no totoro, che sta per uscire, è
proprio così, ed è stata una mia decisa intenzione farlo così. L'idea è che
sarebbe davvero bello se esistessero persone così, se ci fossero dei vicini
così... Certo, io potevo anche fare un film in cui si trasloca vicino a una
vecchia odiosa che brontola per qualunque cosa si faccia: "Giù le mani dal mio
orto, voi!" (risate generali); e quindi le due sorelline sbottano in lacrime...
Ah, sta proprio diventando un film come lo farebbe Paku-san! (risate generali)
Nella realtà certamente le cose stanno così. Ma nonostante
ciò io non provo il desiderio di realizzare cose di questo genere. E penso che,
visto che ci sono altre persone che le vogliono fare, sia meglio le facciano loro.
Quel che faccio io non posso fare a meno di farlo, anche se poi mi dicono che le
ragazze che creo io non esistono; anzi, io le creo proprio perché sarebbe
comunque bello se esistessero.
Ricordi
della guerra vissuta a quattro anni
In realtà ho deciso che oggi avrei parlato di queste cose perché
credo che quel che faccio ora derivi delle mie esperienze di bambino. Ora che
sono quasi prossimo ai cinquanta posso parlarne tranquillamente, ma fino a
pochissimo fa non ne sarei stato in grado, perché sono vicende legate ai miei
genitori.
La famiglia in cui sono cresciuto durante la guerra stava
davvero bene, dal punto di vista economico. Questo perché la fabbrica di un mio
zio, in cui mio padre lavorava come direttore di fabbrica, faceva parte dell'industria
delle commesse militari, anche se in maniera marginale. Si occupava unicamente dei
parabrezza degli aerei, e di componenti per le ali. Eppure durante la guerra,
mentre eravamo sfollati in una fabbrica in mezzo alla campagna della prefettura
di Tochigi, davamo lavoro a più di mille operaj.
La guerra quasi sempre fa pensare a storie di gente
arruolata per amore o per forza, per uccidere ed essere uccisa, che vive
esperienze terribili. Ma se vogliamo usare termini più semplici, la guerra è
quella condizione che porta l'attività di tutta la società a dei livelli di
furioso parossismo. Quindi ci sono anche tanti momenti di nobiltà, che, anche
se in fondo si tratta di errori, possiamo comunque definire degli atti di
sacrificio. Ma nel contempo succedono anche tante cose indecenti. C'è chi fa
cose terribili per mettere da parte denaro, che inganna la gente per guadagno:
c'è anche chi vende merce scadente.
Parlando in termini pratici, fu mio padre a dirmi che le
parti delle ali degli aerei usati dai giovani piloti delle squadre suicide, be'...
credo comunque fossero messe già di gran lunga meglio dei motori; le componenti
delle ali le facevano le ragazze nei turni straordinarî di lavoro, erano
ragazze senza alcuna specializzazione, e quindi i pezzi prodotti non erano
conformi alle norme. Ma dando le bustarelle all'ispettore dell'esercito
venivano accettati. Inoltre gli aerei che i giovani piloti delle "squadre
speciali d'attacco" [meglio note da noi come "kamikaze"; anche se quest'ultimo
termine sarebbe meno corretto. N.d.t.] avrebbero usato avevano, ad esempio, le
mitragliatrici senza i buchi [si tratta presumibilmente dei buchi che evitano
il surriscaldamento delle canne delle armi. N.d.t.]. È tutto vero. I motori,
già quando erano nuovi, erano la parte che funziona peggio, ma i soldati ci
lavoravano perché in qualche modo funzionassero. Comunque erano messi davvero
male, perdevano olio da tutte la parti. Ad esempio, un motore da mille cavalli
di suo non riusciva che a funzionare come se ne avesse cinquecento, e potevi
tentare di metterlo a posto quanto volevi, ma non sarebbe mai arrivato a mille.
Fu in queste condizioni che alla fine perdemmo la guerra.
Comunque sia, tra le conseguenze della partecipazione alle
commesse dell'industria militare ci fu anche che nessuno dei miei parenti dal
lato paterno andò in guerra. Il trucco era dire che erano tutti necessarî per
la produzione, e quindi nessuno venne arruolato. Poi, in tempo di guerra, mio
padre aveva una sua automobile privata, che funzionava a benzina, non col
carburante estratto dal carbone di legna. Certamente mia madre ha dovuto
faticare e soffrire parecchio perché noi figli non patissimo la fame, ma la sua
fatica era davvero poco tale se paragonata a quella media della società. In
pratica, come danni della guerra certamente subimmo i bombardamenti, e
scappammo anche qua e là, ma in realtà nella storia della mia famiglia è stato
proprio quello, il periodo di maggior prosperità economica. E anche nel caos
del dopoguerra riuscimmo bene o male a mangiare.
Utsunomiya, dove stavo io, fu bombardata quando avevo
quattro anni e mezzo, nel luglio del 1945. E allora è successo che... be', non
avrebbe senso parlarne nei dettagli, anche perché sono ricordi di quando avevo
quattro anni, e via via che li ho rimuginati penso che una buona parte li abbia
praticamente creati io stesso.
Comunque sia, successe che mi svegliai sotto il futon,
mi stavano facendo alzare perché c'era un bombardamento. Anche se in teoria era
notte, fuori casa era tutto rosso come al tramonto; no, anzi, era tutto tinto
di rosa, e persino dentro la stanza era tutto rosa. La nostra era una casa molto
grande, occupava un'area molto largo, e così andammo nel rifugio interrato che stava
in un angolo del giardino. Ma poi sembrava fosse pericoloso anche qui.
Attualmente io ho tre fratelli, ma allora il più piccolo non era ancora nato,
il terzo era un neonato, io avevo quattro anni e sopra di me c'era mio fratello
maggiore, che aveva sei anni. Mia madre portava sulle spalle il più piccolo, il
terzo, mentre mio padre teneva me per mano. Quindi un altro mio zio, che credo
anche lui lavorasse nella nostra fabbrica, prese mio fratello maggiore per mano
e così ci rifugiammo sotto il ponte ferroviario della linea Tōbu. Era un ponte
lontano dalla città, in un posto pieno di verde, e quindi si diceva che lì non
avrebbero usato bombe incendiarie. In quel momento il cielo era ingombro di
nuvole e da lì cadeva il fuoco delle bombe incendiarie (erano bombe che contenevano
olî altamente combustibili); cadevano in modo sparso e la città stava già
andando in fiamme.
Un incendio notturno è qualcosa di spaventoso, ma c'era
così tanta luce che sembrava pieno giorno e quindi io non avevo più paura già
quando stavamo scappando lungo la linea ferroviaria Tōbu. Non provavo troppa
paura, per essere un bambino di quattro anni.
Cominciammo a chiederci se anche lì non fosse pericoloso.
In quel periodo mio zio aveva portato a casa un camion della ditta. Era un
Datsun, ed era veramente piccolo, molto più piccolo di una normale automobile
di oggi; anche il ripiano per il carico era davvero piccolo. Era poi molto
capriccioso, spesso il motore non si avviava. Ma mio zio tornò indietro, in
mezzo all'incendio, per poter prenderlo. Ci arrivò attraversando le strade in
fiamme, e lo trovò che aveva tutto il fianco bruciato; però il motore, a causa
delle ondate di calore degli incendî, sembrava bello caldo e quando lo accese
si avviò subito. Be', il motore, comunque, si avviava con la manovella. Quindi,
tornò da noi, sempre attraverso le fiamme, e ci disse che avremmo potuto usarlo
per scappare fuori città. Mia madre, con mio fratello minore tra le braccia, si
mise sul posto di fianco al guidatore mentre mio zio prendeva il volante e già così
la macchina era piena, da tanto piccola che era. Quindi mio padre, mio fratello
maggiore e io salimmo sullo stretto ripiano per il carico. Ci coprimmo con un futon,
visto che dovevamo attraversare zone in cui c'erano gli incendî, e così
partimmo.
Ora, intorno a quel ponte si erano rifugiate anche diverse altre
persone e, anche se non sono sicuro dei miei ricordi su questi momenti,
sicuramente c'era la voce di una donna che ci chiedeva di farla salire. Ora non
so se la vidi o se pensai di vederla quando poi ne parlarono i miei genitori...
comunque sia c'era questa anziana, una donna del vicinato che conoscevamo di
vista, con una bambina in braccio, che si era avvicinata di corsa e ci chiedeva
di farla salire. Ma il camioncino partì, lasciandola lì dove stava. E dentro di
me si è andata via via creando questa scena drammatica in cui io sentivo la sua
voce e la sua richiesta farsi sempre più lontane.
Comunque sia, viaggiammo coperti dal futon, finché
non ci fu detto che potevamo scendere. Scendemmo che ci trovavamo in mezzo ai
campi della periferia, con la notte che ormai stava finendo. Ma guardando il
cielo dalla parte di Utsunomiya sembrava che fosse appena iniziata la sera,
sembrava come la fortezza dell'esercito di Rapyuta, mentre brucia.
Ricordo di aver guardato in quella direzione e di aver pensato: "Aah, da quella
parte c'è Utsunomiya!" [Rapyuta è abbreviazione per Tenkū no shiro
Rapyuta, lungometraggio del 1986 di Miyazaki. Edito in Italia nel 2004 col
titolo Laputa, il castello del cielo. N.d.t.]
Per fortuna, lo seppi più tardi, riuscirono a salvarsi, sia
la madre che la figlia, e questo fu un bene. Ma avrebbero anche potuto non
farcela. Il punto però è che intanto io, sotto la guerra, mentre tutti gli
altri soffrivano le privazioni materiali, crescevo nella bambagia coi miei
genitori che guadagnavano con le commesse militari, e come se non bastasse,
proprio mentre la gente moriva, la mia famiglia scappava con un camion
alimentato a benzina, qualcosa molto difficile da avere; e scappava abbandonano
persino chi chiedeva di farli salire. Questi sono fatti che che rimangono
impressi in modo molto forte, anche per un bambino di quattro anni. Qualcosa
difficile da sopportare, quando poi si fa un confronto con quello che si dice
comunemente, che si deve vivere secondo giustizia, che si deve pensare agli
altri. Inoltre i bambini vogliono pensare che i proprî genitori siano persone
buone, che siano le migliori persone del mondo, e per questo io dentro di me ho
sempre represso questo ricordo. E alla fine l'ho dimenticato finché, con l'adolescenza,
sono stato costretto ad affrontarlo di nuovo.
Ai nostri tempi c'erano ancora ragazzi che, finite le
scuole medie, a causa delle condizioni della famiglia, non potevano andare alle
superiori; o che, sempre per la situazione della famiglia, non potevano
partecipare alle gite; o che facevano assenze prolungate. Ce ne erano molti
anche a Tōkyō, e almeno ogni classe ne aveva qualcuno. Allora io cominciavo a
provare interesse per le questioni sociali, e mi confrontavo con questi
ragazzi, o mi preoccupavo per la loro condizioni, e un po' alla volta mi rendevo
conto che c'era un gigantesco inganno alla base di me stesso, alla base del
modo in cui sino ad allora avevo vissuto. Ma questa era una cosa terribile da
affrontare, e così fino alla fine delle superiori feci il bravo figliolo, buono
e comprensivo, e studiai anche di conseguenza.
Ma a un certo punto non riuscii più a sopportarlo. Cioè,
andare avanti così significava continuare a mentire per sempre. E così, a
diciotto anni, dopo che mi iscrissi all'università, questi problemi vennero a
galla ancora più vividi, e non potei evitare di confrontarmici: come li avevo vissuti
sino ad allora, perché e come ero diventato quel che ero.
Fu molto doloroso. Ovviamente litigai anche coi genitori. Alla
fine, però, nonostante tutto, non riuscii a chiedere loro perché non avevano
lasciato salire quella donna. Il fatto è che, anch'io, a quel punto, non avevo
alcuna sicurezza: non capivo con certezza se io, al posto di mio padre o di mio
zio, l'avrei o no fatta salire. In altri termini, se tra cento milioni di
majali quasi tutti fanno propria la ragazza, avevo l'impressione che
probabilmente anch'io, dopotutto, sarei stato dalla loro parte.
Credo però che se in un momento del genere ci fosse un
bambino a chiedere di farla salire, probabilmente una madre o un padre fermerebbero
il camion. Questo perché, ad esempio, io, che sono genitore, lo farei, se mio
figlio me lo dicesse. Certo, c'erano comunque delle ragioni per cui non
potevano farlo. Se si fossero fermati, sarebbero arrivate tantissime altre
persone che stavano lì intorno, e molto probabilmente la situazione sarebbe diventata
ingestibile. Questo lo so bene, eppure vorrei davvero poter averlo detto. O che
l'avesse detto mio fratello maggiore. Ovviamente sarebbe stato ancora meglio se
fossero stati i miei genitori, a fermarsi.
Poi, in realtà, tutta questa storia del camion non ha quasi
nulla a che fare con la vera natura della guerra. Fermando il camion si può
soddisfare la propria coscienza individuale, ma la faccenda delle commesse di
guerra, come la possiamo sistemare? Oppure, c'è il fatto che in Giappone c'è
chi è morto con i bombardamenti e chi invece si è salvato, ma se pensiamo ai
massacri e a tutto quel che l'intera nazione giapponese ha compiuto in Cina, in
Korea, nelle Filippine o nel Sud-Est Asiatico, allora, ovviamente, dobbiamo
concludere che gli aggressori sono i giapponesi. Sono tutti problemi per nulla
semplici. Ma per quanto mi riguarda, vorrei che gli uomini, dopotutto,
riuscissero a chiedere al camion di fermarsi: io voglio fare un cinema
d'animazione in cui ci siano bambini che ce lo chiedano. È questo che, in
questi anni, sono arrivato a pensare.
Quindi un majale che offre dei fiori di carta a una ragazza
chiedendole di accettare i suoi sentimenti probabilmente non è realistico. Un
bambino di quattro anni che chiede ai genitori di fermare il camion probabilmente
non è realistico. Ma io penso sia meglio mostrare un bambino che lo chieda e
poter pensare che sia una bella cosa che l'abbia chiesto. E dopotutto penso di
essere una persona che può fare un film solo su queste basi. Poi, anch'io ho
visto diversi film che scavano con molta più decisione le zone oscure e
l'ottusità degli esseri umani, film che danno agli spettatori l'impressione di
essere loro stessi sul banco degli imputati, film che ti fanno tornare a casa
depresso, e penso che film del genere abbiano una loro ragion d'essere, e che
ogni tanto se ne debba vedere. Ma io preferisco comunque far film che portino a
pensare: "Ah, se le cose fossero così!". Così è stato per Panda kopanda
e così sarà anche per Totoro. Be', è stato così un po' per tutto quel
che ho fatto. E penso che molto probabilmente non potrò fare a meno di avanti
così.
Chi
crea e chi mangia
Ancora una mia esperienza.
In una casa come la mia, ogni giorno veniva a lavorarci una
serva. La chiamavamo così, ma ora sarebbe meglio dire collaboratrice domestica,
per non offendere nessuno. Era finita la guerra, quindi dovevo avere sui sei
anni, e quando in cucina vidi l'ohitsu appoggiato sopra un mobile dissi:
"Ah, quell'ohitsu lo usavamo per mangiare!", e lei, quasi con disprezzo,
rispose: "A casa mia non avremmo avuto niente da metterci dentro!" [L'ohitsu
è una specie di piccola tinozza di legno usata per mettere il riso, una volta
cucinato, che poi viene servito in tavola. N.d.r.]. In altri termini lei era tra
quelli cresciuti sperimentando fino in fondo le privazioni alimentari, e le sue
parole mi rimangono ancora oggi violentemente impresse.
Come persona sono stato sensibile all'ingiustizia sin da
quando ero bambino. E credo proprio sia dovuto al fatto che ero uno dei figli
più piccoli. Il mio primo ricordo è mio fratello che mi ruba la frittata e io
che mi metto a piangere pensando che non ci possa essere nulla di più terribile
al mondo! (risate generali)
La vita è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Sì,
ricordo di aver pensato questo, allora. Comunque, visto che avevo tre anni,
probabilmente non è mai stato un ricordo così preciso. Ma resta il fatto che
ero notevolmente sensibile alle ingiustizie.
C'è un racconto nella letteratura proletaria per bambini,
in Unione Sovietica, che si chiama Di chi è il pane?
Ci sono un piccolo pollo rosso, un cane, un gatto e un
majale. Il pollo trova dei semi di grano e dice: "Vorrei seminarli. Lo facciamo
tutti insieme?" Ma gli altri tre stanno giocando a carte, o qualcosa del
genere, e rispondono che non ne hanno voglia. Quindi il pollo scava dei buchi
da solo e vi pianta i semi. Quando sono cresciuti propone di tagliare l'erba,
ma sia il cane che il majale e il gatto dicono che non ne hanno voglia. Dopo la
germinazione il pollo chiede se non vogliono ajutarlo a mietere, ma i tre
dicono che non ne hanno voglia. E il pollo miete da solo. Poi chiede se lo
ajutano a fare la farina, ma i tre dicono che non ne hanno voglia. E quindi fa
la farina da solo. Quando infine il pane è pronto e il pollo sta per
mangiarselo, gli altri tre gli chiedono di lasciarlo mangiare anche a loro. E
allora il pollo dice: "Questo pane è mio, e io non ve lo do". Ricordo che lo
leggevo con grandissima passione.
Questa è un'altra mia grande tematica. Non è soltanto la
questione della giustizia, è il problema di chi crea e chi mangia. Penso si
possa anche parlare di rapporto tra produzione e proprietà, o tra capitale e
lavoro.
Intendo dire che anche qualcosa come Kidō senshi Gandamu
deve crearlo qualcuno. Quando si crea il mondo di un film a disegni animati,
può essere fantasioso finché si vuole, ma se non c'è qualcuno che crea non ci
può essere qualcuno che mangia. Fondamentalmente possiamo pensare che siano gli
uomini a creare, lavorando nei campi o facendo i pastori. Ma se riflettiamo più
a fondo, sono le piante che creano il raccolto, e lo fanno grazie all'energia solare
e alla fotosintesi. Quindi, se vogliamo indicare chi, a conti fatti, crea le
possibilità di poter vivere su questo pianeta, queste sono le piante. In altri
termini, tutto quanto, compreso il petrolio, lo creano il Sole, il Sole e le
piante di questo pianeta. Questa e soltanto questa è tutta la forza produttiva
che la Terra possiede. Ci sarebbe anche l'energia atomica, o la fusione
nucleare, ma sappiamo tutti molto bene a quali conseguenze rischiano di
portare, a quali conseguenze già portano [Questa conferenza è stata tenuta
soltanto due anni dopo l'incidente alla centrale atomica di Chernobyl, del
1986, uno dei più gravi della storia. N.d.t.]. In altri termini si può godere
di qualcosa, perché c'è qualcuno che lo crea. E questo vale per l'elettricità
come per i disegni animati. Io credo non si possa creare il mondo di un film
d'animazione senza considerare ciò.
Anche Naushika, anche Rapyuta, li ha creati
qualcuno, e anche questo pane. Anche Totoro, e anche qualunque storia di
fantascienza, qualunque storia poliziesca. Anche Rupan sansei [Noto in
Italia come Lupin III. Fumetto creato da Monkey Punch, Miyazaki
collaborò, assieme a Takahata, alla realizzazione della prima versione
televisiva (1971-1972), e girò quindi due episodî della seconda (1980). Celebre
è inoltre la sua regia del secondo lungometraggio, Rupan sansei –
Kariosutoro no Shiro (Lupin III – Il castello di Cagliostro, 1979).
N.d.t.]. Se Lupin fa il mestiere del ladro perché è il lavoro più cool
che ci sia, allora è davvero una persona ignobile. Lui può fare il ladro perché
esiste la gente per bene. Può diventare un ladro perché la gente per bene è
derubata da spregevoli individui [a cui lui a sua volta ruba]. Io lo vedo così.
Anche senza voler fare film che siano dei grandi discorsi sulla questione di
chi crea e chi mangia, penso comunque che non ci si possa sottrarre dal
considerare questa relazione.
C'è un lungometraggio d'animazione, Hakujaden [La
leggenda del serpente bianco (inedito in Italia). È il primo lungometraggio
animato giapponese del dopoguerra. Tratto da una leggenda cinese e prodotto
dalla Tōei Dōga nel 1958, rappresentò il tentativo di creare un'alternativa
valida e originale rispetto alle produzioni di Walt Disney. N.d.t.], che a suo
tempo mi aveva fatto perdere la testa e che fu anche uno dei motivi che mi
spinse a entrare nell'animazione. Il Serpente Bianco del film è una creatura
mostruosa; ma nonostante ciò si innamora di un uomo e quando il Sovrano dei
Draghi gliene chiede ragione, risponde: "Gli esseri umani posseggono l'anima,
una cosa meravigliosa che noi non abbiamo". Quando lo vidi pensai che questa era
un bugia. Infatti tutti i personaggi secondarî avevano dei volti disegnati in
modo sommario. Soltanto quelli di Shu-Sen, il giovane che fa la parte del
rubacuori, e di Pai-Nyan, l'eroina, erano disegnati con efficacia. Quasi tutti
gli altri erano insignificanti: quelli di chi rema sulle navi, di chi si sbronza
con alcool di scarsa qualità, gente vestita di stracci, che dorme per terra; si
distinguevano quasi soltanto i bambini che, la notte, camminavano per le
strade. E io mi chiedevo cosa ci fosse di bello negli esseri umani, dove stesse
la loro anima. In pratica, c'era uno scarto tra quel che veniva detto e quel
che era disegnato.
Quindi, quando io faccio un film, dico spesso allo staff
di non disegnare i personaggi sullo sfondo come degli stupidi. E questo in
particolare con Rupan Sansei. Sì, le facce dei poliziotti possono essere
anche fatte in qualunque modo, ma un film in cui si disegnano i personaggi di
sfondo unicamente con visi anonimi credendo che così Lupin faccia una figura
migliore è un film che non vale niente. Piuttosto, quel che io dico è che visto
che, in un certo senso, le facce dei personaggi di sfondo possono anche essere
anonime, si deve comunque disegnarle con la maggior cura possibile e che è
proprio per questo che Lupin, disegnato come uno stupido, riesce ad avere un
suo ruolo ed è su queste basi che ha un senso il fatto che lui debba rubare il
cuore di una fanciulla quando ha la possibilità di rubarlo.
Allo stesso modo del majale che imprigiona la ragazza in
una stanza e le offre dei fiori di carta senza farle violenza, è su queste
basi, basi che non potrò mai dimenticare, che io credo di dover fare i miei
film.
E ci sarebbero anche molte obiezioni possibili, ma ormai è
qualcosa che non posso più cambiare, e sono convinto che non potrò che
continuare ad agire così anche di fronte a qualunque tipo di critica o accusa.