La seguente intervista è tratta dal programma di sala per la prima giapponese del film Mononoke hime.
Traduzione dal giapponese realizzata da Yupa dal 6 all'8 Ottobre 2004, rivista e corretta nel giorno 9 Ottobre 2004, senza alcun fine di lucro, con l’unico scopo di divulgare informazioni in lingua italiana sull’animazione giapponese, altrimenti irraggiungibili.
L’ordine cognome-nome rispetta l’originale giapponese e non è ribaltato come invece avviene di consueto (quindi Miyazaki Hayao e non Hayao Miyazaki).
Tutti gli errori e le omissioni, nonché le note contenute tra parentesi quadrate, sono da addebitarsi al traduttore.
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Intervista a Miyazaki Hayao
I giapponesi hanno ucciso lo shishigami, perdendo quella parte di sé che è la più importante per gli esseri umani
 
La maledizione subita da Ashitaka è uno degli aspetti irrazionali della vita
Ho potuto vedere ieri lo storyboard del film. Potrebbe, come prima cosa, parlarci del protagonista, Ashitaka?
Ashitaka non è un ragazzo ottimista e spensierato, ma un ragazzo malinconico che porta sulle spalle il peso del proprio destino. C'era, dentro di me, questo tipo di personaggio ma, finora, non ci avevo ancora fatto un film. Ashitaka subisce una maledizione per un motivo fortemente irrazionale. Certo, lui ha fatto una cosa che non doveva fare, intervenendo contro il tatarigami, ma, dal punto di vista degli esseri umani, aveva sufficienti motivi per farlo. E nonostante questo subisce una maledizione mortale. Credo che, in questo, somigli agli uomini che vivono nell'epoca contemporanea. E credo anche che in questo ci sia uno degli aspetti irrazionali di ciò che è la vita.
E per quel che riguarda Yakul, la cavalcatura con cui Ashitaka parte dal villaggio?
Yakul l'ho creato perché in un certo senso pensavo fosse più semplice disegnare un animale inesistente. Un'altra ragione è che un giovane su un cavallo, con una spada giapponese e i capelli tagliati secondo lo stile chonmage [stile di acconciatura tipico dei samurai] sarebbe stato visto come un samurai, e sarebbe quindi stato incasellato in quell'immagine del samurai che fino a oggi hanno costruito i film d'ambientazione storica. Io ho voluto evitarlo, non volevo mettere in scena un giovane samurai, ma un giovane e basta.
Certamente.
Ashitaka, passando dal suo villaggio al mondo esterno delle città, si sente spaesato. Il fatto che nasconda il viso vorrebbe dichiarare che lui, in questo momento, non è nessuno. Ed effettivamente, nell'istante in cui si era tagliato i capelli che portava annodati, a quel punto non era più un essere umano.
È questo il significato del tagliarsi dei capelli, in un villaggio. Quindi, anche se sembra che Ashitaka parta di sua volontà, in realtà io ho inteso che sia il villaggio a cacciarlo. È così che Ashitaka giunge in un mercato, ma è completamente incapace di trattare sul prezzo. Infatti, nel Tōhoku [regione del Nord‑Est del Giappone] il denaro è comparso da poco e Ashitaka, in cambio delle monete, presenta dei grani d'oro, senza nemmeno sapere quanto possano valere.
 
Eboshi vuole solamente costruire una propria utopia
Eboshi, per come è vestita, dà la forte impressione di essere stata una donna di piacere.
Anch'io la vedo così. Questo perché ho immaginato che sia arrivata dove è arrivata dopo aver provato esperienze umilianti. Quindi, dal suo punto di vista, il destino che pesa su Ashitaka per certi versi è quasi ridicolo.
Nel senso che lei ha attraversato notevoli sofferenze.
Sì. Avevo pensato, come sua storia, che fosse la moglie di qualche capo degli wakō, o qualcosa del genere (Gli wakō erano ciurme di pirati giapponesi che, nel XV e XVI secolo, infestavano i mari di Korea e Cina). Quindi, se si vuole definire in qualche modo quello che sta cercando di fare, lei vuole solamente costruire una propria utopia. Per questo Eboshi è una nostra contemporanea, una persona del XX secolo, che possiede forza d'azione e ideali chiari. Be', ovviamente così è come la vedo io! ^_^
E, quindi, se qualcosa la ostacola...
Non si tira indietro, che si tratti di uccidere, o di sacrificare qualcuno, fosse anche lei stessa a finire sacrificata. Io la vedo così. E questo, in un certo senso, corrisponde ai grandi esperimenti degli uomini del XX secolo, come ad esempio la costruzione del socialismo reale.
Riguardo gli scontri tra i samurai e la città mineraria?
Erano cose che succedevano. Effettivamente le città minerarie scavavano valli e montagne con l'acqua per estrarne il ferro. Raccoglievano l'acqua con dei condotti e poi la scagliavano contro i costoni di terra. La terra si scioglieva in fango, la facevano scorrere nei condotti, via via sedimentandola, e ricavavandone la polvere ferrosa. Siccome in questo modo inquinavano l'acqua, e il fango scorreva giù verso valle, i villaggi e i fiumi nel corso inferiore dei fiumi finivano interrati. E questo era un gran disastro per chi coltivava le risaje.
Quindi i contadini delle valli e i minatori erano sempre ai ferri corti. Per questo non c'è nulla di malvagio nel fatto che samurai possessori di terre attacchino in armi, è una cosa naturale. Essendo questa un'epoca in cui non è ancora chiara la distinzione tra samurai e contadini, è ovvio che nascano dei contrasti, nel momento in cui l'intervento delle città minerarie aumenta.
Il punto è che, nel nostro caso, c'è Asano, un signore territoriale, dotato di una sua legittimità, e Ashitaka, quando vuole accorrere a favore di quelli della città mineraria, viene trattato come un samurai, lo affrontano pensando che lui stia cercando uno scontro uomo contro uomo. E se lui mostra abilità nel combattimento, loro lo riconoscono e lo ammirano. Ho cercato di renderli così, i samurai.
E visto che non ho immaginato loro dalla parte del torto e quelli della città mineraria dalla parte della ragione, ho voluto inserire tra questi ultimi, ad esempio quando ci sono gli allevatori che stanno mangiando, qualcuno di cui si possa pensare che non sia certo una brava persona. Ad esempio, anche se sono entrambi feriti, Kōroku non rivolge la parola al compagno, che è un fuciliere. Anche una persona buona come Kōroku non si allontana dalle convenzioni dell'epoca. Perché i fucilieri svolgono la funzione di truppe mercenarie, ma nella città mineraria non vengono considerati come dotati di personalità o sentimenti.
La forza e il coraggio delle donne della città mineraria danno l'impressione di avere qualcosa in comune con la contemporaneità.
Non avevo intenzione di creare legami col nostro tempo. Il fatto è che sarebbe stato nojoso disegnare una città mineraria dominata dai maschi. Inoltre, un maschio a capo della città sarebbe diventato un amministratore, non un rivoluzionario. Invece una donna, pur facendo le stesse cose, diventa una rivoluzionaria.
È per questo che ho fatto qualcosa di volutamente diverso dalle donne che devono essere protette dagli uomini, o che sono parte di una famiglia. In realtà nelle città minerarie c'erano anche i bambini, ma inserendoli le cose si sarebbero fatte più complicate e quindi non ne ho messi. Ho deciso di fare una città mineraria nel momento in cui ancora non ce ne sono, anche se probabilmente, entro breve, dovrebbero nascerne molti...
Anche tra gli uomini della città mineraria non ci sono soltanto brave persone. Ho voluto renderli come una folla, che comprende anche persone negative. Questo perché nel film non c'è affatto la conclusione secondo cui un individuo può essere ucciso perché è malvagio.
Anche un personaggio come Kōroku, è un personaggio insignificante. È la prima volta che faccio un film con un personaggio insignificante che, fino alla fine, non fa nessun atto eroico, non fa proprio niente.
Jiko‑bō, invece, l'ho reso come un personaggio che sino alla fine non si capisce che ruolo svolga. Può essere un agente segreto dello shōgun dell'epoca, l'inviato di qualche ordine religioso, può rivelarsi malvagio, o essere un ninja, oppure, in realtà, trattarsi di una persona veramente buona. Alla fine è un personaggio che può essere tutte queste cose.
Io credo che lo sia, tutte queste cose che ha detto.
In tal senso, quindi, non è una persona malvagia, ed è così che ho voluto renderlo.
 
L'ultima frase di San, una spina che trafigge Ashitaka
In tal senso, in questo film non c'è un cosiddetto "cattivo".
Sì, non c'è. Quando si parla delle piante, del sistema ecologico, le foreste e via dicendo, è molto facile stabilire che sono gli uomini cattivi a rovinarli, ma non è questo quello che ha fatto l'uomo, non sono gli uomini cattivi a distruggere le foreste.
Perché gli uomini hanno avuto le loro circostanze, le loro ragioni.
Appunto. Si tratta di cose fatte da uomini che amavano il lavoro. Dell'epoca Edo [1600‑1868] ci sono rimasti tantissimi splendidi boschi, ma si tratta di alberi piantati dall'amministrazione degli han [le divisioni amministrative del Giappone storico]. E questi alberi sono cresciuti protetti in modo che, a chi ne tagliava un ramo, gli si tagliava un braccio, o lo si decapitava. Ed era ovvio che i contadini che vivevano intorno a questi boschi, contadini poverissimi, avrebbero voluto in qualunque modo poter tagliare gli alberi del terreno dello stato.
Se si fossero considerate soltanto le loro circostanze, queste foreste non sarebbero mai nate. Sono state create in virtù di un potere politico terrificante. Quindi il problema del cosiddetto umanismo e la creazione delle foreste cozzano l'uno contro l'altro, sia come questione pratica, sia come dilemma teorico. E lo scontro su scala planetaria per i problemi ambientali è la stessa identica cosa. È qui che sta l'intricata difficoltà del rapporto tra uomo e natura. Ed essendo questo il grande tema del film, non ho voluto mostrare gli uomini cattivi e via dicendo.
Certo, credo che i giapponesi abbiano ucciso lo shishigami. È avvenuto intorno all'epoca Muromachi [1392‑1573]. Dopo, le foreste hanno smesso di incutere timore. Non è del tutto corretto parlare di periodo Muromachi, perché ci saranno state delle differenze a seconda delle regioni. Comunque, dall'antichità sino al medioevo [il medioevo giapponese dura convenzionalmente dal XII al XVI secolo], esistevano dei confini che l'uomo non aveva il diritto di superare. All'interno del confine c'era il nostro territorio, quello che potevamo governare con le nostre leggi di esseri umani, ma da un certo punto in poi non c'era più il mondo umano ma un mondo dove non si poteva essere perseguiti nemmeno per dei delitti: era un territorio visto come sacro, quello chiamato asy (spazio sacro, libero e pacifico, privo di legami con il mondo secolare). Ne parlano nei loro libri Abe Kin'ya (storico, ha riconsiderato la storia del medioevo europeo concentrandosi sulla vita delle popolazioni) e Amino Yoshihiko (storico, ha riconsiderato la storia del medioevo giapponese dal punto di vista dei pescatori, degli artisti, dei monaci, delle donne di piacere e dei vagabondi). Penso ce ne fossero molti, di questi territorî. Con il progressivo indebolimento di questa coscienza del sacro, gli uomini hanno in qualche modo perso il rispetto per la natura. E il mio film mostra tutto questo processo.
Cioè, la perdita di questo timore.
Sì. Alla fine tutto quello che fa il film è ricostruire quel che gli uomini hanno fatto nel corso della storia. Dopo che allo shishigami viene restituita la testa, la natura rinasce, ma a quel punto è diventata la foresta pacifica che noi conosciamo bene, non quella terrificante. È così che i giapponesi hanno mutato il proprio ambiente naturale.
E in tal senso, cosa ci può dire dell'ultima frase di San?
È una spina che trafigge Ashitaka, la mancanza di una soluzione. E l'intenzione di Ashitaka sarebbe quella di vivere anche insieme a questa spina. È per questo che Ashitaka, che non giunge a una conclusione definitiva, che in un certo modo si rassegna e decide di vivere con la spina chiamata San dentro di sé, io penso che sia un uomo del XXI secolo.
Se in quel momento Ashitaka avesse deciso di diventare un ecologista radicale, il problema sarebbe stato semplice, ma il punto è che in realtà non lo è. All'interno della vita quotidiana quegli spazî che l'uomo ha per proteggere la natura sono stretti, e Ashitaka ha, come un'altra spina dentro di sé, una sfiducia verso azioni che portino gli uomini a vivere nel mondo degli animali. Nel contempo non è possibile stare a guardare mentre gli uomini muojono di fame. Ashitaka può solamente vivere nel conflitto tra questi due poli, vivere soffrendo. E questa è la sola strada che l'umanità potrà percorrere d'ora in poi.
In tal senso Ashitaka non è un cosiddetto eroe.
Più che altro, la sua caratteristica principale è che nessuno si aspetta nulla da lui. Ad esempio, potrebbe stare bene se si fermasse nella città mineraria e venisse completamente impregnato dal modo di pensare della città, ma siccome le cose non stanno così Ashitaka non ha un posto in cui vivere. Lungo il suo viaggio soccorre le persone coinvolte in battaglia, ma non è che poi venga ringraziato. La battaglia di Ashitaka si svolge quasi sempre là dove gli altri non la possono vedere. È una battaglia solitaria.
Anche quando va dagli allevatori per far loro sapere che la città mineraria sta venendo attaccata, non viene nemmeno ringraziato visto che nessuno di loro non sapeva nulla della battaglia! ^_^ Pensano che sia venuto ad avvisarli, nient'altro. A San lui non dispiace ma lei, semplicemente, si prende il suo dono e gli dice di andarsene. Anche Moro, quello che gli dice è di andarsene dalle montagne. Ashitaka, dunque, non ha un posto in cui stare.
E un ritono al villaggio degli emishi?
Non può tornarci. E anche se potesse tornare, deve pensare che qualcosa, là, dev'essere successo, perché nel frattempo, anche se forse coi suoi tempi, il mondo di Eboshi, il mondo delle città minerarie, si dev'essere espanso. Quindi anche se Ashitaka, guarito dalle sue ferite, dichiarasse di tornare al suo paese, questo non risolverebbe nulla. E se tornasse portando San con sé, ne verrebbero solo problemi.
Kaya, che lo aveva visto partire, amava Ashitaka, giusto?
Certamente. Lo chiama "fratello maggiore", ma questo lo dice solamente perché è un ragazzo più grande di lei all'interno della stessa linea familiare.
Quindi non sono veramente fratelli.
Anche se lo fossero non ci sarebbe nulla di straordinario. In Giappone c'erano molte unioni tra consanguinei. Comunque io ho visto molta convinzione in quel che Kaya fa. Ma Ashitaka sceglie San, e non c'è nulla di strano che finisca insieme a San, insieme a una ragazza che vive un destino così duro. La vita è fatta così.
 
L'equilibrio tra uomo e natura si è rotto dopo l'uso della polvere da sparo
Ci può dire qualche parola su quella che è la chiave del film, lo shishigami?
Per quanto riguarda lo shishigami, in questo film non c'è una presenza benevola che dispensa il bene. Io l'ho disegnato come una divinità minore. Leggende sui giganti, chiamati Didarabotchi o Daidarabō, ce ne sono anche in Giappone, ma la loro origine non è chiara. Io, per conto mio, ho pensato che in realtà potesse essere una manifestazione notturna della natura, e mi è sembrato convincente. ^_^ Mi sono immaginato che questa creatura raccolga e distribuisca la vita nottetempo. E quindi ho variato tra una forma notturna e una diurna. Però è tutto frutto di mie idee arbitrarie! ^_^ Quindi la notte vaga qua e là dentro e fuori la foresta.
Eboshi tenta di uccidere lo shishigami: può dire qualcosa riguardo al suo fucile?
Si chiama kasō, che significa "lancia di fuoco". In realtà dovrebbe essere molto più lungo. È un esemplare che spesso esplodeva, ferendo anche chi sparava. È fatto di rame, era molto usato nel XV secolo nella Cina dei Ming e per questo era entrato in Giappone prima che arrivassero gli archibugi [portati dagli europei]. Gli archibugi chiamati tanegashima, portati dai portoghesi, in realtà non erano fucili loro. Era un modello del Sud‑Est asiatico, un fucile di piccole dimensioni usato a Java.
Ma prima, in Cina, venivano usati sia cannoni che fucili, molto più rudimentali. Sono rimasti dei testi antichi in cui pare siano stati usati durati i disordini di Ōnin [in Giappone; 1467‑1477]. Ma non avevano una potenza tale da dominare il campo di battaglia. Ma per quel che riguarda il rapporto tra l'uomo e le bestie, l'equilibrio fu definitivamente rotto dopo che l'uomo cominciò a usare la polvere da sparo.
Credo però che, in realtà, il motivo principale per cui gli animali delle montagne diminuirono notevolmente fu la massiccia agricoltura umana. Definire belli i paesaggi agricoli è un'arroganza umana, perché i campi, fondamentalmente, privano altre piante della possibilità di crescere, e l'impressione forte è che si tratti di terreni sterili. Considerata dal punto di vista del mondo della natura, la produttività dei terreni lasciati incolti è molto più alta di quelli coltivati. E per gli animali è lo stesso discorso.
Ed è a causa di quest'epoca che si è arrivati a pensarlo.
Cosa penserà, Eboshi, dello shishigami, che vuole uccidere con un fucile?
Eboshi pensa che, anche senza forzare la cosa, se si continuano a fabbricare i fucili e la foresta, un po' alla volta, sparisce, volenti o nolenti la forza dello shishigami si indebolisce e quindi lo si potrà uccidere quando verrà il momento. Non è che provi rispetto per lo shishigami, soltanto, nella situazione del momento deve combattere i samurai, e giudica che se uccidesse allora lo shishigami ci sarebbero troppe vittime inutili. E se gli altri sono convinti che gli alberi si rigenerino, lei pensa che, se necessario, si possono comunque piantarne di nuovi.
Jiko‑bō ha ricevuto il permesso, da parte dell'imperatore, per l'uccisione dello shishigami. Cosa significa?
L'idea è che, dovendo fare qualcosa di pericoloso, è possibile tenere lontana la sventura se si è ottenuto il riconoscimento dell'imperatore. L'imperatore non aveva soltanto un potere politico nel mondo umano, piuttosto era il potere religioso supremo. Quindi Jiko‑bō ha stretto un accordo con quella che sembra un'organizzazione di monaci dall'identità poco chiara. E per questo agisce come un loro membro.
E quell'organizzazione afferma che la testa dello shishigami abbia il potere dell'eterna giovinezza e dell'immortalità.
Pensano che qualche potere debba avercelo. Gli esseri umani sono fatti così. Pensano che le cose strane abbiano qualche facoltà, e se poi si tratta di qualcosa di prezioso, allora vogliono entrarne in possesso. Per questo Jiko‑bō afferma che "il karma degli esseri umani è di desiderare tutto ciò che esiste tra terra e cielo". Jiko‑bō non nega che gli uomini abbiano un proprio karma, un proprio destino. Dice anche che, se esistono le maledizioni, è il mondo stesso a essere una maledizione. Ma intanto gli piace mangiare, e se vede un ragazzo diverso dal solito, ne è incuriosito.
 
La coscienza che proprio la vita moderata distrugge la natura
E per quanto riguarda l'idea secondo cui le foreste e gli alberi maledicano gli uomini che li tagliano?
La trovo interessante. L'idea che gli alberi possano casuare una maledizione è ancora forte un po' dappertutto, ed è sentita con intensità dai giapponesi, come una tradizione della propria terra, qualcosa legato ad antichi ricordi. Sull'isola di Kuya fino a un certo punto gli alberi non sono mai stati tagliati, perché si pensava che, facendolo, si sarebbe stati maledetti. L'albero dava quest'idea con la sua sola presenza.
Quando sono andato a Kuya ho saputo che a un certo punto l'isola era diventata davvero troppo povera, non c'era nemmeno da mangiare, e si volevano tagliare gli alberi per venderli. Ma era stato un monaco a consigliarlo, e non un uomo dell'isola a dire di tagliarli, e la cosa aveva a che fare con un cambiamento che stava subendo l'intero mondo.
E cioè?
Un tempo si esitava a togliere la vita a creature non umane, e questa esitazione poi è sparita. È così che l'intera società è cambiata.
Man mano che l'uomo diventava più forte, sono andate sparendo quelle sofferenze che erano viste come inevitabili, e come l'effetto è stata un'incredibile arroganza. Credo che nell'essenza della civiltà umana ci sia il tentativo di raggiungere il maggior benessere possibile togliendo la vita agli altri esseri viventi.
Luoghi come quelli che stanno nelle parti più interne delle montagne, profonde foreste dove l'uomo non ha mai messo piede e dove scorre acqua pura, questi luoghi ci sono sempre stati nel cuore dei giapponesi. Fino a una certa epoca si è pensato che lì ci fossero enormi serpenti e altre creature terrificanti che non si vedevano nei villaggi. Dentro di me ancora adesso c'è la sensazione che, in questi luoghi arcani nascosti tra le montagne e privi d'ombra umana, ci sia l'origine da cui nascono diverse cose. E credo anche non sia sbagliato pensare che il cosiddetto giardino giapponese cerchi di ricreare questo mondo puro e arcano. La purezza era la cosa più importante, per i giapponesi.
E ciò è andato perso. Non voglio battere il chiodo sul Giappone come nazione, ma come persona che vive su queste isole la mia impressione è che si sia persa quella che è la parte più importante, quella che io credo fosse la radice più importante per gli esseri umani vissuti su queste isole.
E questo si lega all'idea che il mondo non sia degli esseri umani, ma sia di tutto ciò che lo abita, e che, a margine, per il momento, all'uomo sia stato concesso di viverci.
Non è che gli uomini possano coabitare con la natura fintantoché vivono con moderazione e invece, se si danno da fare, rovinano tutto: è proprio la vita moderata che distrugge la natura, e quando se ne diventa consapevoli, allora si finisce per non capire più cosa dover fare. E io penso che sia inutile parlare dei problemi ambientali, dei problemi della natura se non si ritorna sul fatto che non si può capire cosa dover fare per poi ripartire da questo punto.
La ringrazio per il tempo messoci a disposizione.