La
seguente intervista è tratta da: AA.VV., PERSONA – Oshii Mamoru no sekai,
Tōkyō, Tokuma Shoten, 1996, pp. 04-21.
La
traduzione è stata realizzata da Yupa tra i giorni 19 Luglio e 24 Luglio,
battuta a computer tra il 2 e l'8 Settembre, riveduta e corretta tra il
10 e il 14 Settembre 2003.
La
traduzione con ha alcun fine di lucro, ma l'unico obiettivo di divulgare
informazioni in lingua italiana sull'animazione giapponese, altrimenti
irraggiungibili.
Dizionarî
adoperati:
-
AA.VV., Dizionario Shogakukan Giapponese-Italiano, 1994, Shogakukan,
Tōkyō.
- Nelson, Andrew Nathaniel, The modern Reader's Japanese-English
Character Dictionary – second revised edition, 1974, Tuttle Language
Library, Rutland-Tōkyō
- AA.VV., Reigai shin kokugo jiten, 1993 (quarta edizione),
Sanseidō, Tōkyō
-
Matsumura Akira (a cura di), Daijirin, 1995 (seconda edizione),
Sanseidō, Tōkyō
Tutti
gli errori e le omissioni, nonché le note contenute tra parentesi quadrate,
sono da addebitarsi al traduttore. In caso di citazione si prega di non
alterare il contenuto.
L'ordine
cognome-nome rispetta l'originale giapponese e non è ribaltato come invece
avviene di consueto (quindi Oshii Mamoru e non Mamoru Oshii).
I
titoli delle opere giapponesi non sono stati lasciati secondo l'originale, come
sarebbe stato corretto, ma variati in versioni maggiormente comprensibili per
il lettore italiano (quindi non Kidō keisatsu Patoreibā 2 – the Movie,
ma, semplicemente, Patlabor 2); ho tuttavia scelto di tradurre quello
che nell'edizione italiana di Ghost in the Shell (causa il passaggio
attraverso l'edizione in lingua inglese) è noto come "Signore dei pupazzi" con
il più letterale e corretto "Marionettista" (in originale: "ningyotsukai").
Con il suo immaginario radicale Kōkaku kidōtai
ha dominato l'animazione del 1995. Diverse sono state però le difficoltà superate
per completarlo. Presentiamo qui un sol colpo la storia segreta della sua
realizzazione, raccontata da Oshii Mamoru.
Volevo
provare a realizzare una storia che c'era già prima di Patlabor.
Come prima cosa, quale impulso l'ha portata a voler
realizzare Ghost in the Shell?
Quello che provavo quando ho comincio a lavorarci è diverso
da quello che provo ora, e siccome da allora è passato parecchio tempo, adesso non
ricordo più bene.
Già in Patlabor 1 [il primo lungometraggio dedicato
alla serie di O.V.A Patlabor, uscito in giappone nel 1989; il titolo
completo giapponese è Kidō keisatsu Patoreibā – the Movie. n.d.t.]
la storia ruotava intorno a un hacker, un criminale informatico, cosa
che però ma non avevo potuto mettere in scena in modo approfondito. Trattandosi
di un film, se avessi puntato troppo sui lati tecnici e specialistici, come possono
essere le esperienze simulate o le reti informatiche, sarebbe andato perso
tutto il divertimento dell'azione.
Dentro di me, quindi, c'era la voglia di realizzare in
un'altra occasione quello che in Patlabor 1 non avevo potuto. E siccome
mi ero trovato bene con lo staff con cui avevo lavorato per le parti in computergrafica,
sia in Patlabor 1 che in Patlabor 2 [il secondo lungometraggio,
uscito in giappone nel 1993; il titolo completo giapponese è Kidō keisatsu
Patoreibā 2 – the Movie. n.d.t.], avrei volevo fare qualcosa di
diverso ma sempre con loro. Così ho continuato a sperare di poter affrontare in
maniera un po' più consistente la tematica delle tecnologie informatiche usando
gli stessi metodi.
È in quella mi venne fatto il discorso della versione
animata di Ghost in the Shell.
Quindi non si tratta di un progetto proposto da lei?
No, no, e io stesso non pensavo proprio che potesse venirmi
affidato; e per questo sono stato colto un po' di sorpresa.
Mi sembra fosse proprio verso la fine dell'anno in cui
avevo terminato Patlabor 2 [il 1993, n.d.t.]. Fu mister Bandai a
chiamarmi: il posto dell'incontro era un eccellente locale di sushi, sul
fiume Sumida, in una stanza riservata al terzo piano, per di più. Pensai che
sicuramente c'era sotto qualcosa. Io, a dire il vero, avevo con me progetti per
opere che avrei voluto fare, ma proprio quando stavo per mostrarli fui
preceduto e venne posato sul tavolo, davanti ai miei occhî, un volume di Ghost
in the shell.
A me i lavori di Masamune Shirō erano tutti piaciuti e Ghost
in the shell l'avevo particolarmente apprezzato, ma non avrei mai
immaginato che ci avrei avuto a che fare.
Quale parte le era piaciuta, in particolare, di Ghost
in the shell?
Avevo pensato che l'episodio del marionettista era adatto
per farne un film, e poi che Kusanagi Motoko era un personaggio convincente.
Avevo anche avuto un presentimento che, almeno una volta, avrei potuto lavorare
assieme a Shirō.
Le sue, però, sono opere difficili. Si tratta di mondi che è
possibile portare in animazione, ma non senza difficoltà. Ci sono sempre
combattimenti furibondi basati sulla coscienza maniacale della tecnologia, per
cui, volendo dare spessore ai personaggi, si rischia di cadere nell'azione
grossolana. Il fatto è che, se si tenta di dare vita a una visione del mondo
come quella di Shirō, un film in quanto tale si sfascerebbe.
Ma nel caso di Ghost in the shell, sembrava che si
potessero sistemare le cose. Anche perché l'opera aveva un suo spirito volto al
divertimento. E dava l'idea che si potesse adoperare il computer in gran
quantità.
Ora, io stesso avevo appreso i modi per collaborare con chi
lavora con la computergrafica e, a un certo livello, anche come funziona. Avevo
compiuto ricerche piuttosto approfondite sulla manipolazione delle immagini, e mi
sentivo abbastanza presuntuoso e fiducioso di essere uno dei registi più validi
nell'utilizzo della computergrafica in animazione.
Come poter usarla in maniera facile e razionale per creare
le immagini? È in questa direzione che speravo di poter fare qualche passo in
più.
Però esitavo.
E questo perché?
Perché c'erano almeno dodici o tredici anni d'età che mi
separavano dall'autore del fumetto. Mi chiedevo cosa ne sarebbe venuto fuori;
ma fu mia moglie a decidere, con una sola frase: "Tesoro, guarda che se rifiuti
questo lavoro probabilmente l'anno prossimo sarai disoccupato", mi disse. ^_^
Il budget di Ghost in the shell era notevole, e se
avessi accettato, avrei potuto viverci per un anno. In più, come incentivo,
c'era la possibilità di acquisire nuovo know-how. E poi nella storia
c'erano un sacco di armi e la protagonista, per essere una donna, stranamente
la apprezzavo: pensai non mi restasse altro che accettare. E infine Shirō, per
chiarire le cose, mi disse: "Puoi fare quello che vuoi", e così accettai
ufficialmente.
Per fare Ghost in the shell avevo bisogno di
modificare ampiamente l'opera originale, e per questo volevo a tutti i costi
una licenza.
L'opera di Shirō e la sua hanno due direzioni impostazioni.
In che modo sono avvenuti i cambiamenti?
Innanzi tutto, i personaggi. Trasformare in film i disegni
di Shirō era davvero impossibile. E poi le armi. È stato cambiato tutto il design
delle armi. Per quanto riguarda le armi immaginarie, il mio metodo consiste nel
far sì che si discostino poco da quelle reali, perché con l'eccesso di
futurismo si perde realismo. Armi dallo stile futuristico come quelle Seburo
(un produttore d'armi che compare nel fumetto di Ghost in the shell), lo
dico chiaramente, non si adattano ad un'ambientazione che richiama Hong Kong. Inoltre
io ho una mia politica sulle armi, diversa da quella di Shirō, e tra le due non
si sarebbe potuto trovare un compromesso.
Non ci sono differenze tra le armi rappresentate e
quelle attualmente esistenti, dunque?
Le pistole sono tutte realmente esistenti. Per esempio, il design
dell'arma che alla fine usa Motoko rimanda alla P90 (mitragliatrice prodotta
dal Browning) e al Famas (fucile d'assalto in dotazione ufficiale all'esercito
francese). L'unica arma completamente inventata è il fucile anticarro che poi usa
Batō. Ma quello è un mostro, e solo un cyborg può usarlo come si deve per
sparare.
Non compajono nemmeno i fuchikoma (blindati senzienti,
usati della sezione 9, presenti nel fumetto).
Sembra che molte persone ne siano state non poco
insoddisfatte, ma io avevo deciso sin dall'inizio di farli sparire. Ci sono
diverse ragione: innanzi tutto la voce. I fuchikoma danno una forta
impressione di essere delle mascotte, era inevitabile che si sarebbero
trasformate in presenze kawaii, cosa che mal si accordava con il film
nel suo complesso. Poi, se Motoko, una cyborg, montasse un mecha
potente come lo è un fuchikoma, sarebbe diventata imbattibile. Il mio
timore era che nelle scene d'azione, queste sarebbero stata del fuchikoma
e non di Motoko.
Ghost
in the Shell, opera singolare dalla protagonista ben definita
Ghost in the Shell e Patlabor 1 si somigliano: forse
si tratta di un'impressione, o forse dipende da come è stato trattato il tema
dell'informatica...
Il presupposto di base è comunque diverso. Al centro della
storia di Patlabor 1 non stavano i componenti del secondo plotone, come
Izumi Noa o Shinohara Asuma, ma Hoba, il geniale hacker. Sicuramente a
muoversi sullo schermo sono i componenti del secondo plotone, ma è solo un mezzo
il cui fine è quello di poter rappresentare l'odio indiscriminato di Hoba verso
la società. È Hoba, quindi, il vero protagonista di Patlabor 1.
Ghost in the Shell potrebbe sembrare, a prima vista,
mettere in scena i crimini informatici di un hacker dalla misteriosa
identità, chiamato "Il Marionettista", ma alla base c'è il punto di vista di
Kusanagi Motoko, che ne è la protagonista. Quello che qui conta è mostrare il
modo in cui Motoko cambia attraverso l'inspiegabile presenza del Marionettista,
e che questo venga mostrato dal suo punto di vista. È in questo che i presupposti
sono diversi.
Ghost in the Shell ha comunque una protagonista ben
definita.
Credo che per questo rientri in una categoria a parte
rispetto ai film che ho fatto fino ad ora, appunto perché c'è una protagonista
che risalta. Il fatto è che, dopo Lamù, in tutti i miei filme non
spiccava alcun un protagonista. Questo è il primo dove il protagonista compare
in ogni scena. In questo senso l'ho realizzato in modo ortodosso. Però ero
incerto se avrebbe o meno funzionato, a maggior ragione con una protagonista
femminile. Fino ad ora, infatti, i miei lanci erano stati palle ad effetto. [la
metafora si riferisce al mondo del baseball, e prosegue nelle frasi
successive: Oshii intende dire di aver sempre creato opere, dal punto di vista
del modo di trattare i personaggi, originali rispetto alla norma]
Com'è stato, invece, creare un'opera che fosse
nuovamente un lancio dritto, cosa che non faceva dai tempi di Lamù?
A dire il vero però credo sia questa la prima volta in cui
ho tentato un lancio dritto. È difficile poter definire un lancio dritto
persino Only You, anche perché sparisce Lamù, che invece dovrebbe essere
fondamentale; anche se c'è Ataru Moroboshi che, a modo suo, si dà da fare. Ma
più che un lancio dritto si è trattato di un lancio violento e io stesso la
considero un'opera fallimentare.
Quindi, ora, con Ghost in the Shell, ciò che più mi
ha messo in difficoltà è stato come trattare Motoko. Questo perché la storia si
sviluppa secondo il suo punto di vista, e io dovevo avere ben chiari dentro di
me il suo carattere e la sua mentalità. Be', trattandosi di un cyborg,
con dei tratti caratteriali evidentemente diversi da quelli di una donna
normale, in qualche modo ci sono riuscito. Se la protagonista fosse stata una
donna della stessa età ma con un corpo normale, in carne e ossa, non credo
sarei riuscito a metterla in scena.
Di
dove nasce l'anima? Anime che abitano corpi
Ci sono differenze tra i cyborg e i comuni umani?
Da dove si può pensare che nasca la coscienza, l'ego
degli esseri umani? Non dal cervello.
Ad esempio, quando si vuole riconoscere ciò che il proprio
sé è, è usando gli arti, toccando ciò che ci circonda e che è diverso dal sé
che si riesce a stabilire un confine esterno. Ci sono poi i lineamenti o le
capacità motorie che influiscono sul carattere. Estremizzando, si può dire che la
coscienza nasca dal corpo, non dal cervello. C'è da chiedersi quindi di dove
nasca la coscienza dei cyborg, il cui corpo è meccanico.
In me nasce una coscienza individuale proprio perché io
posseggo un corpo completamente diverso da quello degli altri, ma i corpi dei cyborg,
che sono artificiali, sono standardizzati, e quindi non esiste una base per la
nascita di un'individualità.
È per questo che Motoko si tormenta e si chiede se la
propria coscienza, la propria individualità, la propria personalità, il proprio
ego o, come si dice nel film, il proprio "ghost", sia veramente
suo.
Però in Ghost in Shell il Marionettista, che è
privo di corpo, possiede un "ghost", mentre gli androidi, che posseggono
un corpo praticamente come quello degli uomini, ne sono privi. Quindi le
condizioni che portano al possesso di un "ghost" sembrano estremamente
vaghe.
È un problema, questo, poco chiaro... non è detto che
anch'io non possa averne un'idea poco definita.
Riguardo il Marionettista, è probabile che quelle sezioni
che fanno da confine al programma, cioè l'interfaccia, assolvano le stesse
funzioni di un corpo. Un programma è un ammasso di dati, e non essendo disperso
uniformemente all'interno di un computer, esiste un confine chiaro tra
le informazioni che gli appartengono e le informazioni che gli sono esterne.
Inoltre il Marionettista ha la possibilità di hackerare i cervelli dei cyborg
e di otterne il controllo, e proprio per questo ha diverse occasioni per
distinguere il mondo esterno dal suo sé.
Per quanto riguarda gli androidi, invece, si trovano tutti nelle
condizioni per poter diventare come il Marionettista: ma la causa decisiva sta
nella differente quantità di informazioni accumulate, cioè nella memoria. Anche
per i neonati umani è così: se non vengono immagazzinate una quantità
sufficiente di memorie passate, il sé non prende forma.
Ovviamente. Però deve essere molto difficile esprimere
su schermo quando il "ghost" sia o meno presente. In particolare per il
Marionettista, che non ha un suo aspetto esteriore.
Parlando da un punto di vista strettamente registico, il
punto, qui, è come esprimere l'esistenza di una distinzione sulla base della
presenza o assenza del "ghost". Ho usato diversi accorgimenti. Ad
esempio, ci sono personaggi che credono di possedere un "ghost" mentre
in realtà gli è stato totalmente fabbricato, e persino i loro ricordi passati
sono esperienze simulate. Per queste persone esistono dei modelli di
comportamento che possono essere notati dall'esterno, dei sistemi di
regolazione preconfezionati che li portano a fissarsi su una particolare cosa.
Dall'altra, Motoko, che possiede un "ghost" a tutti
gli effetti, dubita della propria stessa esistenza, arrivando a chiedersi se
davvero è un essere umano. Ho scelto dei sistemi per rendere plausibile la cosa
allo spettatore all'interno dei confini della storia. Nel caso di Motoko, un cyborg,
si tratta di diversi accorgimenti: ad esempio, non le ho fatto battere gli
occhi.
La difficoltà maggiore, a livello registico, dev'essere
stata con il Marionettista, giusto?
No, al contrario, è stato il caso più semplice. Consistendo
unicamente in una voce, è bastato scegliere un doppiatore che comunicasse
un'immagine il più possibile vicina a quella del Marionettista. Una voce dotata
di un forte carisma, un po' diversa da quella degli uomini in carne e ossa.
Non è stato preso in considerazione l'uso di una voce
sintetica?
Non sarebbe stata possibile un'interpretazione. È ovvio che
la mancanza di una voce viva non avrebbe avuto senso.
E il motivo per cui è stata scelta una voce maschile?
Il Marionettista usa un corpo artificiale di modello
femminile: ho scelto una voce maschile pensando all'impatto che avrebbe avuto
sul pubblico.
Una cosa molto interessante, certamente non realizzabile
nel fumetto.
È un vantaggio dei personaggi dell'animazione: se la voce è
la stessa, il personaggio rimane lo stesso anche usando una diversa immagine.
La
teoria registica di Oshii in Ghost in the Shell
In animazione uno stesso personaggio viene disegnato da
venti o trenta persone, che non possono avere tutti lo stesso tratto. Eppure,
il personaggio continua ad essere sempre lo stesso. Ad esempio, nell'animazione
delle serie televisive, il tratto cambia leggermente ad ogni episodio
settimanale, ma gli spettatori riconoscono i personaggi sempre come gli stessi.
E questo perché? Fondalmente, si tratta della voce...
Nei film dal vero o nel teatro l'individualità dei
personaggi viene espressa con gesti minimi.
Questo è uno dei punti deboli dell'animazione. Non è
possibile, nemmeno volendolo, esprimere tramite l'animazione il fatto che,
anche se l'aspetto cambia, gesti e atteggiamenti permangono. Non so come
saranno le cose in futuro, ma per adesso non è possibile. Dopotutto, un
personaggio animato è privo di sostanzialità. Il disegno, difatti, è un
simbolo. Una semplificazione, una condensazione estrema della realtà, questo
sono i simboli: è quindi possibile creare delle distinzioni con sistemi
semplici, come il peso dei corpi o la loro velocità, ma renderle tramite gesti
e atteggiamenti è tecnicamente difficile.
E nonostante questo in Ghost in the Shell mi sono
dato da fare in più modi. Ad esempio Motoko è stata disegnata pensando a come dove
disegnare un cyborg. Solitamente un cyborg viene rappresentato
come un superuomo, ma nel caso di Motoko azioni acrobatiche non ce ne sono
quasi. In cambio, ho voluto far emergere la sua natura nell'assenza di espressioni
di dolore anche quando le si spezzano le braccia o le si staccano le gambe, o
nel fatto che, nei salti, il peso del corpo artificiale sfasci il pavimento
all'atterraggio.
Si pensi anche solo al modo di camminare: come si può fare
per dotare un corpo meccanico di un proprio ritmo, così com'è per quelli in
carne e ossa? Si tratta di cose che non possono essere rappresentate
direttamente, e renderle tramite disegni è estremamente impegnativo.
Riguardo a questo: Motoko è povera di espressioni, ma si
tratta di una cosa voluta, giusto?
Certamente. La sua immagine è quella di una bambola. Quando
lessi il fumetto considerai subito alla storia come una messa in scena del
matrimonio tra il Marionettista e Motoko. Pensai quindi che la sposa di un
Marionettista dovesse appunto essere una bambola.
L'ho già detto prima: Motoko batte gli occhi raramente.
Battere gli occhi è il massimo che si può ottenere nell'animazione, quanto a
recitazione, ed è lavorando su questo si riesce a far emergere un minimo di
vitalità.
Quando ci si collega alla Rete, o quando il "ghost"
finisce sotto il controllo del marionettista, l'anima si separa dal corpo. Si è
privi di vitalità e non si battono gli occhi. Per animatori che hanno studiato
come disegnare personaggi espressivamente ricchi, dev'essere stato un lavoro
molto duro.
Il
matrimonio tra il Marionettista e Motoko, e quindi la nascita di una nuova vita
Un matrimonio tra il Marionettista e Motoko? Ma dopo ciò
che fine fa Motoko?
La storia finisce proprio con la loro unione, e
successivamente alla fusione di Motoko con il Marionettista nasce una vita
nuova, qualcosa che non è nessuno di loro due.
A quel punto Motoko ha cessato di esistere.
Probabilmente è così. Fondamentalmente ho cercato di
rendere l'immagine di Motoko come quella di una donna il cui desiderio era
questo. Durante la storia Motoko continua a dubitare del proprio "ghost";
in altri termini, è insoddisfatta del proprio sé com'è in quel momento, vorrebbe
diventare qualcosa di diverso. Ma questo desiderare di diventare qualcosa di
diverso da sé, significa negare il sé che, in quel momento, prova un tale
desiderio. Inoltre, nel contempo, anche se ora si è insoddisfatti dei proprî
limiti e di sé stessi, si prova il desiderio di non voler perdere il proprio
sé. Si tratta di una antinomia, una proposizione non risolvibile. Questo perché
è una cosa certa la presenza, qui e ora, di questo sé che tanto desidererebbe
cambiare. Cos'è questo io che dubita di se stesso? È a questo che porta il
discorso. Alla fine Motoko, con il suo dubbio ancora intatto, si fonde con il
Marionettista, e si trasforma in qualcosa di nuovo, che non è più lei.
La storia termina suggerendo questo qualcosa come
un'esistenza non prigioniera di antinomie o cose simili. Ma quello che succede poi,
è completamente affidato al giudizio dello spettatore. La storia finisce lì, e
non ritengo così importante quello che accade dopo.
Quindi non viene mostrata una conclusione?
Il fatto è che le storie, tutte, in fin dei conti, parlano
di persone che cambiano. Il personaggio che compare all'inizio, quando arriva
alla scena finale è cambiato. Può essere la storia di un cattivo in cui si
risveglia la sua buona coscienza, o quella di un uomo che, ignaro dell'amore,
riesce a raggiungerlo. In altri termini sono i mutamenti delle persone a
diventare storie, e la questione non è il contenuto concreto del cambiamento, non
è ciò che cambia.
I film sono questo: fondamentalmente non danno risposte, ma
pongono domande: il loro compito non è rispondere. Consideriamo il caso di
Motoko successivamente alla fusione: non viene detto chiaramente se la sua
trasformazione in una diversa esistenza l'abbia portata ad essere, come diceva
il Marionettista, un'esistenza di livello superiore, o se invece si sia
trattato di una semplice fusione dei ricordi e delle personalità; o se, ancora,
Motoko sia solamente stata ingannata. Da parte mia mi chiedo se sia riuscita
effettivamente a raggiungere un livello alto quanto aveva inizialmente creduto.
Una
quantità di lavoro più che doppia rispetto a Patlabor 2
Ci sono stati dei problemi una volta iniziata la
lavorazione effettiva?
Tanto per cominciare il manga non era sempre
comprensibile. Venivano usati termini tecnici, come "micromachine" o "chip
neurali", termini che nessuno conosce. Ho letto attentamente il volume, penso
sulle venti o trenta volte e dei testi citati nelle note a margine, mi sono
procurato tutto quello che ho potuto procurarmi.
Dal punto di vista dell'effettivo lavoro di
realizzazione, comunque, le cose sono andate in modo ottimo. Eppure la quantità
di lavoro è stata più che doppia rispetto a Patlabor 2, e questo perché ho
avuto l'obiettivo di aumentare la quantità di informazioni rappresentate su
schermo. L'eccessiva difficoltà ha anche portato delle tensioni: "Ma perché
qualcuno non lo ferma?", c'era chi si chiedeva. ^_^
Anche il computer ho pensato di usarlo a un livello
diverso rispetto a Patlabor, dal low‑tech allo high‑tech, anche
se questo ha aumentato la quantità di lavoro. Il computer, alla fine,
non rende le cose più facili; sono macchine che aumentano in un sol colpo le
quantità di informazioni utilizzabili, ed è ovvio che allora aumenti anche la
quantità di lavoro.
Un'altra caratteristica di Ghost in the Shell è la
scelta dei colori. Solitamente, quando all'inizio si stabiliscono i colori
relativi ai personaggi, vi è un colore, chiamato "normale", sulla cui base si
impostano via via le ombre e le tonalità. Di solito, quindi, la maggior parte
delle sequenze utilizzano il colore "normale". Ma nel nostro caso questo sarà
stato usato soltanto in due sequenze. Nishikubo, il regista, e Kumiko-chan, la
colorista, hanno fatto in modo di cambiare i colori a seconda delle situazioni
[Nishikubo è Nishikubo Toshihiko, già presente in Laputa, Video Girl
AI, Patlabor 2; il nome intero della colorista è Katayama Kumiko. n.d.t.].
Anche se si fosse deciso che un personaggio era di un certo colore, nella
realtà quello non sarebbe stato usato, perché il colore cambia a seconda delle
condizioni e delle situazioni. Il punto è che il è mondo reale ad essere fatto
così, e anche nei film dal vero non ha senso fare discorsi rigidi su un unico
colore della pelle.
Inoltre, per le riprese, sono stati usati dei filtri, ci
sono state manipolazioni digitali...
Certo, persino in occasioni in cui non risultano nemmeno visibili.
Estremizzando, potrei dire che ogni fotogramma, una volta
completato, è stato ripreso con l'uso di un filtro, sempre. Non sono quasi
state fatte riprese senza che ci fosse qualcosa sulla lente della telecamera.
Attualmente, in animazione, già da molto tempo siamo
arrivati al punto in cui i colori possono essere cambiati a seconda dei
desiderî del regista. Quel che è certo è che, nel nostro caso, l'uso di una
quantità notevole di filtri è stata dovuta proprio anche al grande lavoro fatto
nella scelta dei colori. È stupefacente come il colore della pelle di Motoko
possa risultare grigio piombo una volta visto su schermo. Se si considera il
disegno unicamente come risulta sul rodovetro ci si può preoccupare se sia
riuscito bene o no, ma una volta montato sul fondale ci si convince che va bene
così. Poi, la scelta dell'uso di filtri nelle riprese è stata pensata anche per
armonizzare i colori tra le diverse sequenze o con la computergrafica. Si tratta
di un lavoro molto delicato, qualcosa che non può essere fatto senza conoscere
il modo in cui funziona lo sviluppo della pellicola; si deve anche fare
attenzione che si mantenenga uniforme la qualità di tutta l'opera.
Abbiamo poi introdotto qualche nuovo metodo per i fondali. Ad
esempio, durante il film sono presenti una gran quantità di insegne. Queste
sono state disegnate tramite un McIntosh, stampate e poi riprodotte sul
fondale. Ci sono invece fondali con delle fitte serie di poster uguali:
non avrebbe avuto alcun senso farli tutti a mano, e quindi ne è stato disegnato
uno, per poi copiarlo e riprodurlo sul fondale e si è infine aggiunto il
colore. Credo siano cose che, finora, nessuno ha mai fatto. Certo, non tutto è
riuscito alla perfezione, ma credo che nella maggior parte dei casi l'esito sia
quello che avevo pensato.
È risultata comunque un'opera sobria, molto più di quanto
avrei immaginato. Nishikubo, uno dei registi, mi disse che era ovvio, e sembra
che anche il resto dello staff la pensasse così. Mi chiedo se lo staff
non mi capisca più di quanto mi capisca io stesso... fatto sta che hanno
realizzato diverse cose che io volevo prima ancora che ne facessi richiesta. Comunque
sia, da questo punto di vista, è tutto filato liscio. Sapevo che anche solo da
un layout tutti capivano quello che avrebbero dovuto fare. Alla fine io
ho solo fatto le rifiniture. Le animazioni principali e tutto quel che segue è l'ho
a Nishikubo, e io me ne sono rimasto a parlar di sciocchezze con Ogura
Hiromasa, il responsabile dei fondali [Ogura ha lavorato ai fondali, tra gli
altri, di Remì, Le ali di Honneamise e Patlabor. n.d.t.].
La direzione dell'animazione in Ghost in the Shell
è stata affidata a Okiura Hiroyuki e Kise Kazuchika. In che modo si sono divisi
il lavoro?
Okiura si è occupato della scena madre: dal momento in cui
vengono istituiti i posti di blocco durante l'inseguimento dell'automobile
della sezione sei, sino al combattimento nel museo invaso dall'acqua; e poi i
titoli di testa. Il resto l'ha fatto quasi tutto Kise. Non è che ci siano stati
dei motivi per questa divisione, è una cosa di cui hanno discusso tra loro, io
non mi sono affatto intromesso.
È stata comunque una divisione eccellente.
Anch'io penso che abbia funzionato bene. Anche se, tra i
due, devo ammettere che è stato Kise a lavorare di più per ottenere meno; a
prima vista, infatti, il piatto forte sono le scene d'azione di cui si è
occupato Okiura. Io però apprezzo davvero tanto l'interpretazione di Motoko
nell'ultima scena, dopo che lei è entrata nel corpo artificiale della ragazzina,
scena che ha realizzata Kise.
Ovviamente è stato lei a scegliere loro due per la
direzione dell'animazione.
Avevo pensato sin dall'inizio di affidarla a Kise, ma con
la scaletta che avevamo sarebbe stato impossibile che concludesse da solo il
lavoro entro i tempi stabiliti. E così sentii Okiura, con cui avevo lavorato
dai tempi di Patlabor. Lo stesso Okiura aveva detto di voler prendervi
parte.
Un'altra
caratteristica di Ghost in the Shell: sonorità mai sentite
prima
In Ghost in the Shell desideravo impegnarmi anche
dal punto di vista del sonoro, visto che, per quanto riguarda l'animazione in
sé, le condizioni erano ben definite e senza problemi. Non mi sarebbe piaciuto
fare qualcosa come Patlabor. È stato comunque sfiancante e i lavori per
il sonoro sono durati nove settimane. Però ho seguito la realizzazione della
colonna sonora fino al mixaggio, avvenuto a Los Angeles, e di questo ne sono
soddisfatto, perché ho potuto imparare molto sul sonoro. Non erano certo cose
necessarie, ma io volevo comunque conoscerle: il modo in cui funziona il dolby,
la logica che c'è dietro alla manipolazione sonora... cose di questo genere.
La musica era particolarmente importante. Ho avuto diversi
incontri con Kawai e abbiamo discusso su come fare per ottenere una musica
diversa da quella di Patlabor. Il risultato è stato grossomodo positivo
e questo, lo devo dire, mi ha sollevato, perché in fase di realizzazione ci
sono state tantissime cose che mi preoccupavano. Anche perché avevo posto
diversi divieti a Kawai.
Ad esempio?
Be', ci sono delle combinazioni di suoni che sono tipiche
di Kawai, degli schemi riconoscibili come suoi: in questo momento entra il
pianoforte, dopo tocca agli archi... cose di questo genere. E io, di base, ho
proibito che le usasse, mi sono dato da fare il più possibile perché rimuovesse
tutto quello che suonasse tipico di Kawai Kenji. E così lui ha sempre fatto,
fino all'ultimo istante, fino all'ultima registrazione; mi ha seguito senza mai
lamentarsi. Fondamentalmente, se avesse mollato tutto, non avrei potuto dirgli
niente.
Magari con parole come: "questo non è il mio lavoro!"...
Sì, anche perché io non mi facevo problemi a dirgli:
"Quegli archi, quella frase, ci stanno da cani!! Da capo!!" ^_^ Ma lui si è
impegnato fino all'ultimo momento. Credo anche che non ne sia rimasto
soddisfatto, ma gliene sono grato perché ha sempre riveduto tutto dando il
massimo che poteva dare.
Ma come mai ha tanto insistito per una musica diversa?
Forse lo stesso Kawai non se ne era reso conto, ma in Patlabor
2 il suo stile saltava fuori in maniera esplosiva, e io avevo pensato che
la volta successiva non sarebbe dovuto accadere. Ma quando si discusse come
fare, nessuno, nello staff, sapeva che pesci pigliare.
Ancora adesso non riesco a dimenticarlo: abbiamo fatto
un'irruzione di massa a casa di Kawai, abbiamo ascoltato diversi CD e Kawai ha
provato a battere su uno strano tamburo, comprato in Thailandia. Le vibrazioni
che ne uscivano non erano male, così abbiamo cominciato a discutere se provare
a sfruttarle. Ma quando si provava ad aggiungere una voce, era un vero disastro:
sovrapponendo una voce di tipo classico, con i vibrati, la risonanza del
tamburo svaniva. Provammo quindi diverse voci, e dopo parecchî tentativi alla
fine abbiamo visto che sarebbe andato bene qualcosa tipo i cori bulgari; ma si
trattava di musica popolare, e facendo una ricerca scoprimmo che complessi
corali professionisti non ce ne erano. E non potevamo certo, con dei
dilettanti, dar loro degli spartiti e dire di provare a cantare. In quella
Kawai si ricordò che, durante le registrazioni per Ranma ½, erano state
chiamate delle ragazze per fare un accompagnamento vocale di tipo tradizionale.
Forse delle voci giapponesi, che non cantano in modo classico, potevano
avvicinarsi alla musica popolare, una musica in cui non ci sono i vocalizzi
usati in quella classica. E provare a inserire uno strano vibrato? In questo
modo ci si avvicinava ai cori bulgari, no? Il risultato fu davvero ottimo.
Proponemmo la cosa al gruppo di tre ragazze che avevano cantato un
accompagnamento di tipo tradizionale in Ranma ½, che divennero così parte
dello staff.
Poi, durante le prove, si parlò di inserire dei trilli, e
così abbiamo usati anche quelli. Lo staff del sonoro si divertì, era la
prima volta che un coro usava i trilli in quel modo. Io pensavo che le cose
erano finalmente a posto, ma in realtà il momento cruciale doveva ancora
arrivare.
E cioè?
Quando, per la registrazione effettiva, ci si ritrovò nello
studio di Karuizawa, tutti quanti, e Kawai per primo, guardarono verso di me. E
quando io chiesi: "Allora, non cominciate?", Kawai borbottò a bassa voce: "Come
si può fare?... Non ne ho la minima idea!"
"Non hai pensato niente?"
"Niente."
Effettivamente avevamo deciso di usare il tamburo e le voci
dei canti tradizionali, ma non sapevamo come usarli per ottenere dei brani
musicali. Si trattava poi di suoni su cui non si aveva alcuna esperienza, non si
sapeva nemmeno in che ordine registrarli. Io ero sconvolto, ma non c'era molto
che si potesse fare, e conclusi: "Be', intanto proviamo il tamburo". E così la
prima sessione di registrazione si concluse con Kawai che batteva il tamburo!
^_^
"Ma riusciremo davvero a fare della musica, in questo
modo?": in quel momento era questa era la mia impressione. Intanto era arrivato
un percussionista, si erano cominciate delle registrazioni e qualcosa di simile
alla musica stava venendo fuori. Si andò avanti così, e durante tutta la
lavorazione ci si chiedeva se fosse o no musica, finché non aggiungemmo la voce
e, per ultimi, gli archi, arrivando in qualche modo alla conclusione. Mia
moglie disse che andava bene, e così passammo al mixaggio finale. Io, però, ero
preoccupatissimo, mi chiedevo se una musica realizzata in quel modo si sarebbe
adattata a quelle immagini. Ma quando provammo a sovrapporla al film su
schermo, incredibilmente funzionava.
Io, comunque, fino a quel momento non sapevo praticamente
nulla del modo in cui si fa la musica: è stato un caso esemplare di metodo per
prove ed errori. Il fatto è che ci trovavamo sotto una notevole pressione riguardo
al genere di musica che sarebbe stata usata, e le richieste venivano in
particolare dalla Manga Entertainment, che era controllata dall'etichetta
Island, un'azienda musicale. Io però avevo la risposta giusta: "È tutto a
posto, ho un asso nella manica". In realtà sia io che Kawai non riuscivamo a
prevedere assolutamente nulla! ^_^
Il concetto di base è stato di non fare musica
all'occidentale, ma una musica etnica priva di nazionalità. Non abbiamo usato
musica folk, perché sarebbe stato sin troppo facile: se non ci si
impegna veramente non ha senso pretendere di fare la musica per un film. Ci
sono stati anche molti strumenti che non abbiamo potuto usare: tanto per
cominciare il pianoforte, e poi le arpe, che di solito invece si usano sempre.
Quasi tutti gli ottoni non andavano bene, e anche buona parte dei fiati. Anche
le percussioni, funzionavano solo quella della musica folk, ma senza
suonarle come si fa di norma. Per i suoni bassi, tra l'altro, abbiamo usato strumenti
come i gamelan, ma solo leggermente sfiorati da mani femminili.
Sono stati momenti da brivido, e Kawai continuava a
ripetersi sino all'ultimo momento: "Ma cosa facciamo se tutto questo fallisce? Io
ho paura di perdere la faccia davanti a tutto il mondo: quella strana musica
popolare avrà un suono orrendo". Credo che anche Kawai sentisse la forte
pressione.
Un altro vantaggio del lavoro che ho fatto è stata la
trasferta a Los Angeles.
In che senso?
Ho potuto capire parte del segreto del cinema americano, la
ragione per cui quello americano e quello giapponese sono così diversi. Il
cinema americano usa il sonoro in modo particolare, si può dire che per loro
sia una specie di politica, di ideologia. Il punto cruciale è il modo in cui i
suoni bassi vengono utilizzati: in Giappone è al livello dell'udibilità
dell'orecchio, mentre in America fanno vibrare l'atmosfera. In america c'è una
forte concezione del cinema come spettacolo: non opere, ma spettacolo, l'importante
è come intrattenere larghe fasce di pubblico. È partendo da un punto di vista
in cui la domanda è come attrarre questo pubblico che nasce il modo in cui il
suono viene creato: esplosioni, e poi dialoghi che siano chiaramente comprensibili.
Anche gli effetti sonori devono vibrare al massimo volume. Questo viene eseguito
in modo totalizzante, ed è da qui che nasce il sapore tipico del cinema
americano. In Giappone, invece, si fa attenzione a ottenere un sottile
equilibrio, ed è questo che crea tanti problemi agli addetti al sonoro, perché
il mondo che loro costruiscono può essere distrutto molto facilmente.
Il mondo del cinema giapponese, con il suo straordinario
equilibrio, e quello del cinema americano, con la sua schiacciante potenza: non
si può dire se uno dei due sia il migliore, perché alla base ci sono due
diverse ideologie. Fatto sta che il sonoro del cinema giapponese dà
l'impressione di essere maggiormente accogliente, più alla portata dello
spettatore.*
Tra parentesi, c'è una ragione per cui si dà tanta
importanza all'equilibrio: il problema è nelle installazioni delle sale. Gli
impanti sonori, in Giappone, variano da cinema a cinema, e l'equilibrio e le
regolazione degli altoparlanti sono insufficienti, per cui i suoni troppo alti
si trasformano in rumori sgradevoli. Le compagnie di distribuzioni seguono
quello che dicono i cinema, e le ripercussioni negative sono sui curatori del
sonoro dei film, i quali, per paura, preferiscono non usare volumi alti. Così
stanno le cose.
Poi c'è il problema dei dialoghi. I doppiatori americani si
sforzano per comunicare in qualche modo il senso dei dialoghi giapponesi, ma,
di base, le traduzioni sono molto libere. Parlando chiaro, nell'edizione
americana Ghost in the Shell è diventato un altro film, l'ho pensato subito
non appena l'ho visto.
Il sonoro, da solo, può fare una così gran differenza?
Certo. Mi sono chiesto se era davvero un film d'azione così
chiassoso: non c'era uno spazio, una pausa per riflettere su niente.
Non lo riconosceva più, quindi?
Il fatto è che anche se si seguisse tutto quanto fino dal
doppaggio, anche se si curasse la traduzione fino ad ottenerne una convincente,
ugualmente non sarebbe più lo stesso film. Il muro linguistico è alto più di
quanto non ci si immagini, si tratta di un problema insolubile. Già, il cinema
non è un linguaggio comune per il mondo, un film, quando supera i suoi confini
nazionali, vive di continui fraintendimenti.
Certamente. E questo lo si capisce anche solo vedendo le
edizioni doppiate dei film occidentali. [l'intervistatore intende,
ovviamente, le edizioni giapponesi n.d.t.]
Ma per quanto riguarda il doppiaggio io li ho rivalutati, i
doppiatori giapponesi. L'ultimo giorno ho detto a Wakabayashi, il direttore del
sonoro, che una volta tornato in Giappone avrebbe dovuto riferire chiaramente a
Tanaka Atsuko, che aveva fatto Motoko, e a Ōtsuka Akio, che aveva fatto Batō,
che il loro era stato un lavoro davvero ottimo. E lo pensavo veramente. Una
battuta ha un suo tempo limitato in cui si devono comunicare delle informazioni
facendo nel contempo ricorso a tutte le proprie capacità tecniche per esprimere
delle emozioni, modulando i tempi e il respiro: questo vuol dire recitare. Da
parte loro i doppiatori americani sono dei professionisti nel far sentire la
propria voce: hanno una buona pronuncia e i dialoghi sono comprensibili, ma
l'interpretazione è monotona. Pronunciano le parole ma non ne trasmettono
l'emozione fino in fondo. I doppiatori giapponesi invece sono davvero
eccezionali; e riescono a far completare un doppiaggio in due giorni, anche con
una interpretazione del genere. Mi hanno detto che in America ci sono volute
tre settimane.
Si dice che nell'edizione americana sia stato usato un
brano degli U2 per i titoli di coda.
Se ne era parlato all'inizio, ma il produttore della Manga
Entertainment ha sentito la musica di Kawai e gli è piaciuta tantissimo. Quindi
per l'edizione cinematografica è stato usato il brano di Kawai, mentre per quella
in videocassetta sembra verrà usato uno degli U2. Una cosa che mi ha fatto davvero
felice: io e Wakabayashi ci siamo stretti la mano urlando tutti contenti!
Un Ghost in the Shell che Oshii deve
ancora vedere
Quali sono le impressioni oggettive di Oshii quando
guarda Ghost in the Shell?
Il film è stato appena completato, e quindi non posso
ancora vederlo in modo oggettivo. Alla fine, per capire come pensare un film,
in che modo sia diventato una realtà, devono passare almeno due o tre anni. Patlabor
2 ho finalmente cominciato a capirlo soltanto ora.
Si dice che uno che spettatore, dopo dieci anni, cambi
il suo punto di vista. Si tratta di una cosa simile?
Forse rischio di essere frainteso, ma io considero
importanti quegli spettatori che guardano un film dopo diversi anni. Credo che
forse è quando si tiene conto del loro punto di vista che si possa realizzare
un buon film. Certo, se poi lo si considera come prodotto commerciale, la sfida
è nei confronti del pubblico più immediato, e poi siamo noi stessi a non voler
produrre subito un pezzo d'antiquariato; insomma, un film non è qualcosa il cui
sapore sia da gustare unicamente dopo diversi anni. Ma la questione è se il
film sia ancora interessante, abbia ancora una sua freschezza anche guardandolo
dopo che si è spinta l'inondazione pubblicitaria che lo circonda.
Allo stesso modo, anche chi ci lavora non riesce a
guardarlo con distacco subito dopo il completamento. Difatti, mentre lo si
crea, si continua ad essere convinti di star facendo qualcosa che sarà
interessante.