Traduzione dal giapponese realizzata da Yupa il 14 Agosto
2005, rivista e corretta tra il 18 e il 20 dello stesso mese.
Le note tra parentesi quadre sono opera del traduttore.
La traduzione è stata eseguita senza alcun fine di lucro, con l’unico scopo di
divulgare informazioni in lingua italiana sull’animazione giapponese,
altrimenti irraggiungibili, ed è liberamente distribuibile. In caso di
citazione si prega di non alterare il contenuto. In caso di distribuzione e/o
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Tutti gli errori e le omissioni sono da addebitarsi al
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La realtà dentro al cinema
Si tratti pure di una tecnica scoperta da Edison, io
credo che il desiderio e il bisogno di cinema fossero presenti nell'uomo già prima
di questa scoperta.
Intendo dire che, come il desiderio di riprodurre la
realtà esisteva prima della comparsa della fotografia, allo stesso modo anche
il desiderio di vedere immagini in movimento era presente
nell'immaginario umano sin dai tempi delle pitture rupestri delle grotte di
Altamira. E questo cinema immaginario possedeva fin dall'inizio colore e
sonoro, e la tecnica, più avanti, non ha fatto altro che concretizzarlo.
Possiamo dire la stessa identica anche dell'attuale diffondersi
del digitale. Prima ancora che comparissero le tecniche di creazione ed
elaborazione digitali, il desiderio per questo tipo di immagini già esisteva
sia negli spettatori che nei registi, un desiderio che aveva portato agli
effetti speciali, come l'uso dei modellini, o il trattamento dei rodovetri. Il
digitale non ha fatto altro che ampliare l'ambito di questi sistemi di
lavorazione.
Quel che conta non è che si sia stati in grado di
realizzare film digitali successivamente alla comparsa del digitale, ma che il
desiderio di realizzarli sia sempre esistito già da prima. Ancor più importante
è che questa tecnica ha certamente cambiato il cinema, ma se sia o meno possibile
farla funzionare entro il cinema, ciò dipende dal grado di maturità
dell'immaginario proprio della sensibilità dello spettatore nei confronti di
queste figure [digitali], un immaginario che precede la nascita della tecnica
[digitale]. Le forme che lo spettatore non è in grado di accettare non
funzionerebbero come cinema, mentre la sensibilità che permette questa
comprensione si regge innanzi tutto sulla memoria del cinema che si è già
visto.
È ciò che io spesso definisco come soglia percettiva
della realtà propria dello spettatore, e un cinema che ne superasse i
limiti non verrebbe accettato. C'è il cosiddetto cinema sperimentale, che può
superarli senza farsi troppi problemi, ma non è questo il nostro lavoro. Il
nostro lavoro consiste nell'esaminare a fondo e freddamente questi limiti e
nell'agire in un bilico continuo sulla linea di confine. Senza la capacità di distinguere
la linea oltre la quale comincia il rischio, una regia che abbia il coraggio
del bilico diventa impossibile, e tutto finisce per essere come Mito Kōmon [nome
di quello che è meglio noto in Italia come Mitsukuni Mito, uno shōgun su cui in
Giappone sono fiorite diverse leggende, trasmesse in modo inverosimile e
stereotipato attraverso racconti, film, fumetti, e via dicendo. In Italia è
arrivata la serie televisiva d'animazione, trasmessa col titolo L'invincibile
shogun].
Quindi nel cinema quando si fa qualcosa che ancora non è
stato fatto non si ottiene nulla di nuovo. Il desiderio di determinate immagini
e il desiderio di vederle sono sempre esistiti, già prima della tecnologia, e
la nascita di nuove tecnologie non può cambiare l'immaginario umano e nemmeno superarlo.
Quindi, immagini che ancora nessuno ha mai visto possono esistere solo
metaforicamente, non realmente.
Se però potessero esistere, forse una possibilità può darla
la computer graphic. Potrebbe esserci questa possibilità, se si
affermasse il metodo di creare immagini modificando gli algoritmi usati per
generare immagini già note al pubblico. Ma è una possibilità puramente teorica,
e credo sarebbe ovviamente molto difficile che possano venire riconosciute e
accettate immagini così generate. È un discorso, questo, che sta a un livello
diverso da quello sulle meravigliose forme degli insetti, o sull'impatto che
può avere una zecca vista al microscopio elettronico. Si tratterebbe di un
mondo disegnato da una divinità, nulla di più [quel mondo fatto di immagini
digitali incomprensibili per l'essere umano].
È per questo che creare qualcosa che superi l'immaginario
umano diventa una questione senza fine. Io sospetto che non sia possibile
superare l'orizzonte che l'uomo stesso si crea con il linguaggio e le immagini.
Si può fare cinema unicamente sulla base della memoria del cinema, e questa
memoria risale a un immaginario che esisteva ben prima dell'invenzione del
cinema. Questo immaginario, poi, ha delle regole sue proprie costitutive, non è
affatto libero. L'uomo non può superare il proprio immaginario, e non può
nemmeno oltrepassare il proprio mondo linguistico.
Ovviamente, anche essere sempre coscienti di quel che sta
oltre il limite ha un suo senso. È come la coscienza del divino, non è che
abbia senso l'atto concreto del parlare, il senso sta nel parlare tenendo
sempre presente quel di cui non si può parlare. Anche per le immagini, per
poter avere presente i limiti di quel che si può dire, si può solo tenere
sempre presente quel che non si può dire.
In tal senso il cinema non inganna, e non sarebbe possibile
lavorarci neppure un giorno senza la volontà di creare immagini che ancora
nessuno ha visto. Ma è anche certo che questo è impossibile. Come motivazione
funziona, anche se non è concretizzabile. In cent'anni di cinema ormai non
esistono più scene o immagini che nessuno abbia ripreso, e di immagini nuove
non ne esistono comunque.
Quel che però conta non sono le immagini, ma che il cinema
possa continuare a esistere. Il cinema non può fare a meno delle immagini, ma
ciò non vuol dire che un'immagine abbia un senso di per sé. Quale senso
conferire alle immagini, ovvero in che modo porle in nuovi ambiti... assegnare
loro un determinato contesto, creare fatti significativi, che vuol dire anche
significati nuovi, questo io credo significhi fare cinema.